Everything Everywhere All at Once rappresenta il bisogno del cinema di ritornare ad essere pura idea. Ovvero uno spazio che sia creatività più di quanto sia misura e significato. Una tela bianca in cui gettare immagini nate da una mente umana spinta al massimo del pensiero simbolico e astratto. Non serve scomodare la rivalità con le Intelligenze Artificiali per capire che questo concentrato di immaginazione libera dei Daniels è il simbolo delle inquietudini creative di questi anni. Possiamo riprodurre tutto il pensabile con gli effetti speciali, ma la creatività sembra cementificarsi su schemi sicuri e già “digeriti” dal pubblico.

Favoritissimo agli Oscar 2023, Everything Everywhere All at Once è portabandiera di un cinema che ammette di avere ormai già raccontato tutte le storie possibili nella realtà. E di uno che va a cercarne altre sfondando quel velo che chiamiamo il vero. Prende così il multiverso, un concetto non certo nuovo, mai in voga come gli ultimi anni, e lo fa convivere con i sentimenti esistenzialisti e nichilisti che animano i registi.

L’angoscia: tutto finisce con la morte e addirittura con il futuro annichilimento del cosmo. Lo smarrimento: tutto che è già stato detto, fatto, pensato da altri in qualche altro luogo. La ricerca: il bisogno vivo di comunicare, di unire più punti dell’apparente caos quotidiano e trovare un significato. Il multiverso incarna gli aspetti più negativi di questa consapevolezza: se tutto finisce che senso hanno i drammi individuali? Sono un nonnulla rispetto all’impassibilità dell’universo! Insieme ci sono anche gli aspetti positivi: se ogni scelta crea una realtà, allora quel Dio che si credeva morto divento io. Lo diventa cioè Evelyn Quan Wang, una protagonista senza particolari doti, però catalizzatrice di un turbinio di universi alternativi derivanti proprio dalle sue decisioni.

Un essere cosmico così inutilmente potente che ritorna in possesso della sua vita e del senso della stessa.

Multiverso e multiversi al cinema Everything Everywhere All At Once

Almeno tu nel multiverso

Michelle Yeoh interpreta Evelyn, un’immigrata cinese negli Stati Uniti. Ha una lavanderia, tante tasse da pagare, un marito (Waymond)  e una figlia (Joy). Ha tanti sogni archiviati. Fatica a far convivere tutte queste cose fino a che non viene trascinata in una battaglia multiversale. Viene contattata dall’Alphaverse, una dimensione ribelle che ha sviluppato una tecnologia che permette di accedere alle abilità degli omologhi di altre realtà. Deve opporsi a Jobu Tupaki, la versione malvagia di Joy. 

Inutilmente complicata, la trama si dipana dall’inizio alla fine in enormi spiegazioni e in una guerra che ingloba tutto, in ogni luogo e tutto in una volta.

Daniel Kwan, Daniel Scheinert utilizzano lo strumento narrativo del multiverso in modo radicale. Premono sull’acceleratore senza cinture di sicurezza e fanno un film che maneggia questa materia senza alcuna gradualità. La sceneggiatura parla ad uno spettatore del futuro, uno abituato da decenni di multiverso e che sa accettarlo senza filtri o premesse. I Daniels fanno questo mentre nei blockbuster si scrive e si mettono in scena ancora con gradualità queste strutture per renderle accettabili da tutti. 

Everything Everywhere All at Once è esattamente come il multiverso. È pieno di possibilità spesso anche bizzarre, cambia continuamente pur mantenendo elementi di coerenza interna. È però anche come un brainstorming: un incontro tra menti che buttano al centro tantissime idee senza filtrarle. Ne esce così un film narrativamente squilibrato, eccessivamente lungo (andrebbero sforbiciati almeno 30-40 minuti per compattare il ritmo) e, incredibilmente, quasi ripetitivo. Perché pur cambiando continuamente ad un certo punto, proprio come Evelyn, anche noi intravediamo un pattern, uno schema di funzionamento molto rigido e prevedibile.

Elogio dell’originalità

L’aspetto più riuscito di Everything Everywhere All at Once viene dal suo essere un film così derivativo che fa il giro e diventa il film più singolare della stagione. Non esisterebbe senza Matrix, senza tanta letteratura di fantascienza e ovviamente senza le narrazioni interconnesse dei fumetti al cinema e su carta. Cita di tutto: 2001: Odissea nello spazio, I Goonies, In the Mood for Love, i film di arti marziali, Gondry, Ratatouille, e altri. L’effetto è però qualcosa di fresco, una sensazione di assenza di limite.

dita gondry everything everywhere

Questo bisogno di originalità, di distinguersi in un panorama sconfinato di film e prodotti audiovisivi che ha Everything Everywhere All at Once è lo stesso che prova Evelyn insieme al resto della sua famiglia. 

La disillusione che avvolge tutta l’avventura si risolve nell’amore, una forza che compatta tutto in ogni piega della realtà. Si ritorna sempre lì, alla fine, all’accettazione del piccolo mondo interiore. Il film è stato un colpo di fulmine americano assoluto. Proprio questo amore porta Everything Everywhere All at Once ad essere un favorito agli Oscar 2023 molto diverso da quello a cui ci ha abituato la cerimonia in passato, eppure quasi scontato rispetto allo spirito dell’epoca che stiamo vivendo. Mette infatti tutte le pedine al posto giusto: una struttura del racconto molto popolare, uno sguardo autoriale, una rappresentazione diversa, di persone e personaggi rimasti ai margini del cinema americano.

Tutto questo in un buon film, certamente, ma anche un po’ sopravvalutato. Una voglia di applaudirlo più di quanto meriti che viene probabilmente da quella sensazione di originalità che lascia. Più che una constatazione di qualità, è quindi per lo spettatore un bisogno. Una richiesta di tornare al cinema sentendo di essere di fronte a qualcosa di mai visto prima.

Cosa rimarrà di Everything Everywhere All at Once dopo gli Oscar 2023?

Rimarranno un sacco di premi, probabilmente, e il multiverso già promette di prendere ancora più piede nel futuro prossimo. Everything Everywhere All at Once, al netto di una narrazione squilibrata, del desiderio di parlare dell’oggi che a volte diventa molto ruffiano, di una consapevolezza che ne inficia la spontaneità, ha già vinto per l’impatto che ha avuto nell’annata.

Non sarà semplice per i Daniels scrollarsi di dosso un fenomeno simile che potrebbe diventare per loro anche una prigione. Le strade sono due: o la loro creatività sarà lasciata libera, o saranno costretti a incastrarsi nel modello. Cioè a replicare ovunque la folle originalità di Everything Everywhere All at Once (e Swiss Army Man). 

Ne esce vincitrice assoluta anche Jamie Lee Curtis. Ha il merito di aver creduto e sostenuto con tutta se stessa un film destinato a non uscire dalla nicchia. Oltre ad aver regalato un’interpretazione pazzesca. Il suo entusiasmo durante il lancio ha insegnato molto al cinema indipendente. Nulla convince di più a vedere un’opera che credere a tutto, tutti insieme, in una volta sola, quello che c’è sullo schermo.

È questo che resta a tutti i cineasti dopo Everything Everywhere All at Once. È la fiducia nel film come contenitore di idee importanti che potrà salvare e rinnovare il cinema. Ancora più dell’originalità.

Potete trovare gli altri nostri approfondimenti sui candidati a miglior film agli Oscar 2023 cliccando qui.

Potete seguire BadTaste su Twitch!

Oscar 2024: link utili

Classifiche consigliate