Kill Bill: Volume 1 uscì nei cinema italiani il 24 ottobre 2003

Kill Bill: Volume 1 non è il miglior film di Quentin Tarantino, anche se lasciamo a voi decidere a chi vada invece la palma. Non è neanche quello che ha avuto il maggior successo al box office, stracciato da sostanzialmente tutte le pellicole (in questo caso ci permettiamo di usare questo termine desueto) uscite dopo. Eppure, se al momento della sua uscita non avesse suscitato tanto scalpore e non fosse diventato così (ebbene sì) iconico, forse Parasite non avrebbe mai vinto l’Oscar come Miglior film. Un’esagerazione? Proviamo a spiegarci, mentre celebriamo il ventesimo compleanno di Kill Bill: Volume 1.

Quentin Tarantino è un cinefilo, e grazie tante, direte voi, lo sappiamo. In particolare è un appassionato di certi generi e certe, chiamiamole così, scene cinematografiche che non sempre vengono apprezzate da certa critica e che spesso sono semi-sconosciute a gran parte del pubblico, diciamo così, generalista. In parole più semplici, gli piace il cinema meno noto ma non quello da rassegna cinefila; gli piace la roba da drive-in, da VHS pirata d’importazione, gli piacciono tutte quelle cose che sono considerate troppo estreme (quando non direttamente spazzatura) persino nel loro Paese d’origine – gli piace, per esempio, molto più cinema italiano di quanto piaccia in media a un abitante della nostra nazione.

Kill Bill Occhi

In quanto cinefilo e sponsor di opere meno note, Tarantino ha sempre usato il suo cinema anche per fare opera di omaggio e soprattutto divulgazione. Jackie Brown convinse un po’ di gente a riscoprire la carriera di Pam Grier e per estensione la blaxploitation. Death Proof avrebbe dovuto farci riscoprire il cinema da grindhouse e l’opera di Russ Meyer – anche se finì in realtà per essere sorpassato a destra dal suo companion film Planet Terror. Kill Bill: Volume 1 guarda invece al proverbiale Oriente, mettendo in scena una sorta di remake non dichiarato di Lady Snowblood e sdoganando un’estetica e un immaginario (e anche un modo di mettere in scena certe sequenze) che fino a quel momento erano ancora confinati alla nicchia, dalle nostre parti.

Quello che vogliamo dire è che ovviamente Kill Bill: Volume 1 non fu il primo film della storia di Hollywood a prendere pesante ispirazione dai film di arti marziali di Hong Kong e da quelli giapponesi a base di samurai; e non fu neanche il primo a integrare nell’azione certe tecniche tipicamente orientali: quattro anni prima, per dire, Matrix ci aveva presentato il wire fu, e John Woo era sbarcato in California addirittura un decennio prima. Questo non significa però che certo cinema proveniente da Hong Kong e Giappone fosse riuscito a penetrare nel mainstream e a mettere radici. Per gran parte del pubblico americano (e occidentale in generale), certe cose nascevano e morivano con Bruce Lee, e d’altra parte al tempo c’era ancora una bella fetta di critica (cinematografica e non) che non capiva, non apprezzava o addirittura non conosceva manga e anime al di là delle poche selezionate cose che erano arrivate anche a noi, che fossero robottoni o ragazze con un passato tragico.

Lucy

Kill Bill: Volume 1, quindi, si caricò sulle spalle il duplice compito di educare e sdoganare. Di mostrare un modo diverso di mettere in scena una storia universale come quella della vendetta della Sposa, un modo che dall’altra parte del mondo era la norma ma che non necessariamente il pubblico medio di Tarantino conosceva. Quanta gente, in America ma anche in Italia, sapeva chi fossero gli Shaw Brothers? La risposta ovviamente non è “nessuno”, ma il punto è che dopo l’uscita di Kill Bill: Volume 1 cambiò in “molta più gente, ora”.

Non solo: Tarantino scelse di presentare un certo immaginario nel modo più estremo ed esagerato possibile, invece che provare a depotenziarlo e adattarlo a una visione più digeribile e ibrida. Non c’è esempio migliore dell’inserto anime che ci presenta la backstory di O-Ren Ishii: molta gente non apprezzò, ed è vero che a vent’anni di distanza possiamo ammettere che come sequenza non sia un granché e che se ne poteva fare a meno, snellendo un po’ il secondo atto; ma è anche un (scusate il gioco di parole) atto di coraggio, una scelta non accomodante, il modo più esplicito per dire “vi sto raccontando una storia stando a regole altrui”.

Kill Bill Uma

In questo senso, l’unica vera critica a Kill Bill: Volume 1 che potrebbe rimanere ancora valida vent’anni dopo è quella di essere un film basato sull’appropriazione culturale, e sull’arroganza di un americano convinto di poter fare certe cose meglio di chi le ha inventate. Critica che secondo noi crolla proprio su questa seconda parte di discorso: Tarantino non vuole dare lezioni a nessuno, non c’è arroganza in Kill Bill: Volume 1, non ci sono per esempio citazioni irrispettose o inutili strizzate d’occhio; tutti gli elementi che sgarrano rispetto al modello di riferimento sono 100% Tarantino e sono un modo per segnalare “sono sempre io, che vi racconto una storia in un modo che ancora non conoscevate”.

E ovviamente il successo di Kill Bill: Volume 1 ebbe anche il virtuoso effetto collaterale di far uscire dall’ombra un sacco di gente, che si sentì finalmente vista e riconosciuta e cominciò quindi a portare il proprio amore per il cinema orientale sul grande schermo. Il film dimostrò per esempio cosa succede quando hai una persona brava a immaginare le coreografie, e con una visione diversa da quella standard hollywoodiana: prima di finire sul set con Tarantino (e pochi anni prima, guarda caso, in Matrix), Yuen Woo-ping aveva lavorato in patria con leggende come Sammo Hung, Donnie Yen e Jet Li, e i risultati si vedono – il lungo combattimento finale con gli 88 folli è ancora oggi una sequenza maestosa perché pensata da una persona che vede gli spazi (e gli oggetti di scena) come pochi al mondo, prima ancora perché girata con classe e montata con energia ma senza frenesia.

O-Ren

È anche grazie a Kill Bill: Volume 1 se Hollywood ha cominciato a prendere in considerazione e far lavorare attori e attrici orientali (cinesi, di Hong Kong, giapponesi, coreani…), e a chiedere film a registi di quella parte del mondo. La sua influenza si estende fino ai colossi di granito del box office attuale: credete che Shang Chi e la leggenda dei dieci anelli sarebbe stato possibile in un mondo pre-Kill Bill? E intendiamoci, non è un modo per sminuire sottilmente il film riducendolo a un apripista valido più nella teoria che nella pratica: anche al netto delle influenze, della cinefilia e del collage stilistico su scala mondiale, Kill Bill: Volume 1 è un fantastico film di vendetta, il cui gioco di linee temporali sembra fatto apposta per farci salire la rabbia nel modo giusto, e farci arrivare al confronto finale tra Uma Thurman e Lucy Liu con il sangue che ribolle.

Contiene alcuni dei momenti più tarantiniani dell’intero cinema di Tarantino, l’uso più ridicolo e insieme esaltante del bianco e nero che si possa immaginare in una scena con un bagno di sangue (la sapevate? Era finito il sangue e dovettero usare altri liquidi di altri colori), e una prestazione di Uma Thurman che da sola vale una carriera. Ed è un film senza il quale forse oggi non esisterebbe John Wick e non avremmo una collezione clamorosa di artisti marziali sparsi tra Marvel e Star Wars. È il film di Tarantino che più di tutti guarda lontano (in senso geografico), e nel 2003 fu un dono incredibile e bellissimo. Oggi abbiamo imparato a crederci, ma bellissimo lo resta comunque.

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