Questo speciale su La vendetta di Carter fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla vita l’ho imparato da Sylvester Stallone

Se la presero un po’ tutti per La vendetta di Carter, remake di un britannicissimo film con Michael Caine che David McKenna (sceneggiatore di American History X) e Stephen Kay (che magari non ricorderete per la regia di Boogeyman – L’uomo nero) trasformarono in una storia molto italoamericana sulla scorta del fatto che il loro protagonista era uno dei più famosi italoamericani di Hollywood da questo lato dei vari De Niro e Scorsese. Se la presero i sempre antipaticissimi Razzie, che nominarono sia il film sia Stallone. Se la presero in Inghilterra, dove le cronache raccontano di un sondaggio che lo vide eletto a Peggiore Remake di Tutti i Tempi. Se la prese anche lo stesso Stallone, che ancora oggi sostiene che il film sia stato sottovalutato.

La vendetta di Carter Carter

E ovviamente se la prese il pubblico: a fronte della solita sessantina di milioni di budget, la media su cui si era assestato Sly in questi anni, La vendetta di Carter ne incassò meno di 20, diventando uno dei peggiori flop, numeri alla mano, della carriera di Sylvester Stallone. Il risultato è che un film tutto sommato innocuo, ma interessante per i filologi stalloniani, sia passato alla storia come una ciofeca senza precedenti, andando ben oltre i suoi stessi limiti e solidificando la sua fama nel modo più infamante possibile. È un po’ un peccato, perché il film di Kay non se lo merita, non del tutto almeno.

Lo spunto di partenza è lo stesso del film di Mike Hodges basato sul romanzo di Ted Lewis: un criminale di città torna a casa per il funerale del fratello, morto in un incidente, e decide di investigare sulla sua morte perché si convince che sia stato in realtà ucciso, e che nascondesse qualcosa che neanche la sua famiglia più prossima conosceva. Dove però il giovane Caine era un insospettabile ed elegantissimo gangster, la versione di Kay di La vendetta di Carter ha a disposizione un volto noto per tutt’altre cose, e piega quindi tutto il film al suo carisma e a quello che ci si aspetta da Sly.

Alan

Jack Carter è un criminale, e non serve granché per capirlo: ha il pizzetto, i capelli tinti di nero e un fisico imponente che porta ancora le tracce della mutazione di Cop Land, ma semi-nascosta sotto il lavoro compiuto nei tre anni successivi per tornare in forma. Sorride sempre sarcastico, dice poche cose e con la sua sola presenza trasmette chiaramente l’idea di essere invincibile, immortale e soprattutto letale. Non a caso il film punta molto anche sul suo rapporto con Gloria, la moglie del fratello (Miranda Richardson), e soprattutto con la loro figlia adolescente (Rachel Leigh Cook), alla quale è riservata una sottotrama quasi-sentimentale che ruota attorno al riavvicinamento tra zio e nipote, e alle lezioni di vita che il primo impartisce alla seconda.

Gloria passa gran parte del tempo in scena a far notare a Carter che non è più quello di una volta e che questo la confonde e la disorienta: la storia è che il criminale aveva abbandonato la famiglia cinque anni prima, sparendo nel nulla senza mai farsi sentire (presumibilmente per proteggere il fratello dalle conseguenze dei suoi affari sporchi). E dunque il suo ritorno a casa per il funerale viene visto dai parenti come una fregatura: “perché all’improvviso ti importa di lui?” gli chiede Gloria almeno due o tre volte nel corso del film. La risposta a questa domanda arriva alla fine del percorso compiuto da Carter nell’arco del film, che lo porterà a scontrarsi con una serie di coloritissimi personaggi tra i quali spiccano Michael Caine (nel ruolo che nell’originale era di Bryan Mosley) e soprattutto un Mickey Rourke che sembra uscito da un film di Tarantino.

Rhona

Il problema è che il percorso non è particolarmente interessante, e il racconto viene spesso (soprattutto all’inizio: La vendetta di Carter ci tiene a fare una buona impressione fin dai primi minuti) affogato sotto trucchetti visivi a effetto ma un po’ fini a loro stessi. È un classico film “che si guarda”, piacevole da avere sotto gli occhi ma che lascia molto poco al di sotto della superficie: un paio di prediche stalloniane, un paio di colpi di scena che funzionano solo alla prima visione (o se non conoscete l’originale), il talento di tutti i nomi coinvolti. Un tempo avremmo detto che è un film videoclipparo, tutta forma e poca sostanza. Non è quel disastro che credono gli inglesi, ma non è neanche un film che merita troppa attenzione. Esiste, e Stallone ha fatto di peggio, ma finisce lì.

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