Last Christmas è su Netflix

Le commedie romantiche sono spesso sdolcinate: è parte del pacchetto, l’amore è una cosa che spesso ci fa perdere la dignità in un modo magnifico ma zuccherosissimo, lamentarsi che una commedia romantica trasudi dolcezza e buoni sentimenti è come lamentarsi che uno splatter trasudi frattaglie. E poi “sdolcinato” non vuol dire nulla, o meglio, è un concetto che può essere declinato in modi diversi: Il diario di Bridget Jones lo è in maniera diversa da Autumn in New York, e volendo potremmo anche aprire una parentesi su quanto quest’ultimo esempio sia aderente alla parte “com” dell’equazione. In un panorama così multiforme,  cangiante e sfuggente, è bello trovare ogni tanto delle certezze: Last Christmas, per esempio, è la commedia romantica più dolciastra degli ultimi anni, un vero peccato perché è un film nel quale la melassa affoga ogni spunto e ogni idea in un mare di cuori e di lacrime.

Last Christmas è un film di Paul Feig, uno che vi piaccia o no ha dimostrato di saper trattare la materia rom-com in modo personale e persino originale (si veda Le amiche della sposa). È anche un film con Emilia Clarke: a meno che non abbiate vissuto su Marte o comunque lontano da Internet negli ultimi quindici anni saprete tutto su Daenerys Targaryen e sulla frattura che divide il fandom di Game of Thrones, e che vede da una parte chi la riverisce come l’unica vera regina e dall’altra chi sostiene che non sia particolarmente brava a fare il suo mestiere. C’è poi una terza via, quella secondo la quale il vero talento di Emilia Clarke è per i ruoli brillanti, come dimostrato anche da certi sketch dell’epoca. Per cui vederla protagonista di una rom-com molto British e diretta da uno famoso per le rom-com brillanti dovrebbe essere un sogno che si realizza, o almeno una buona occasione per vederla alla prova con altre facce oltre ad “arrabbiata ti brucio” e “tristissima ti brucio”.

Occhioni

Purtroppo, e non ce ne voglia Emma Thompson, Last Christmas è anche scritto da Emma Thompson, appunto, insieme al marito Greg Wise. E per qualche motivo la coppia decide che il modo migliore per raccontare questa storia d’amore è farci annusare qualcosa di diverso per il primo atto e poi gettare tutto alle ortiche rivolgendosi alle soluzioni più banali e accomodanti che il genere possa concepire. La storia è quella di Kate, una ragazza incasinata e, nel momento in cui la incontriamo, senza casa. Kate è la perfetta protagonista di una rom-com. Ha un lavoro, così si può giustificare il fatto che beve, ma è un lavoro apparentemente senza orari né struttura, e abbastanza strambo da permetterle di fare un po’ quello che le pare pur di assecondare le necessità narrative, anche abbandonare i clienti a metà di una transazione senza venire cacciata a calci dalla proprietaria del negozio dove lavora (Michelle Yeoh, poveraccia).

Il negozio in questione si chiama Yuletide ed è un negozio di chincaglierie natalizie, una scelta geniale perché ci ha permesso di usare la parola “chincaglierie”, ma che costringe tutto il film dentro un’atmosfera natalizia che dopo un po’ diventa oppressiva. Yuletide vende orridi oggetti natalizi tutto l’anno, e la povera Kate è costretta a fare la commessa vestita da elfo. Che tragico destino per una che sogna di diventare una grande cantante! Di giorno, quindi, si umilia in costume verde. Di sera beve, rimorchia ragazzi, ci va a letto e fa di tutto per dimenticare che odia la sua famiglia, e anche quella traumatica esperienza che l’ha quasi uccisa e per la quale ha dovuto subire un trapianto di cuore. È un’egoista, una casinista, una Bridget Jones meno carrierista e più in fase tardoadolescenziale mai superata. È il soggetto perfetto per un film del genere, un disastro totale che chiede solo di essere salvata da un principe azzurro.

Emma

Che si chiama Tom e per una volta sembra poter essere un protagonista di rom-com un po’ diverso. Perché invece di corteggiarla e farle capire quanto la ama e quanto non possa vivere senza di lei, Tom le fa vedere la vita da un’altra prospettiva, non le parla mai di lei e di loro ma dei vicoli di Londra, del cielo, del suo lavoro da volontario a una mensa per senzatetto… lo sentite in lontananza? È il rumore del macchinario che produce lo zucchero filato che si sta scaldando in attesa di sommergerci con il suo dolcissimo prodotto. Il destino di Last Christmas si gioca proprio qui: sembra che il rapporto tra i due protagonisti possa essere un po’ diverso dal solito, quanto meno più brillante e stimolante, ma il povero Tom inciampa fragorosamente mentre prova ad allontanarsi dallo stereotipo, e finisce travolto dalla sua stessa inattaccabile santità, utile solo a fare da contrasto al completo disagio di Kate.

È un peccato perché Last Christmas mostra qui e là qualche sprazzo di brillantezza. Innanzitutto geografica: conosciamo a memoria le strade delle varie New York, Philadelphia, Seattle e San Francisco perché le abbiamo viste in migliaia di commedie simili, ma l’effetto che fa una vecchia città europea (Londra in questo caso) è diverso, più potente, più vivo. Spesso le rom-com americane sembrano ambientate in città inesistenti e costruite apposta per diventare set cinematografici; spostarsi in Inghilterra basta per dare un po’ di carattere alla città sullo sfondo della quale si svolgono le vicende di Kate e Tom.

Last Christmas Emilia

Che poverini, fanno del loro meglio. Emilia Clarke è davvero più brava nei ruoli brillanti che in quelli drammatici, mentre Henry Golding sa di non essere lui la star dello show e si fa saggiamente da parte quando serve, senza mai scadere nel buco nero di personalità. Avremmo qualcosa da dire invece a Emma Thompson (ancora lei), che decide che Kate e la sua famiglia sono di origini croate e che quindi interpreta il ruolo della vecchia mamma croata che parla con buffo accento russoide, non usa gli articoli determinativi e ha paura del KGB. Sarebbe una scelta assurda per una nata a Londra da madre scozzese e padre di Sleaford, nel Lincolnshire (pron: “Lincolnscìr”), finché non ci si rende conto che lo scopo di questa umiliazione è poter infilare un attacco frontale alla Brexit che, per quanto tutto sommato gradito, è anche più posticcio della sorella token lesbian di Kate.

Alla fine del secondo atto di Last Christmas succede una cosa. Raccontarvela vi rovinerebbe il film, ma sappiate che dopo averla vista non ascolterete più George Michael con le stesse orecchie. È l’unico sussulto di un terzo atto che deraglia completamente nelle banalità e nel “va tutto bene, ci vogliamo tutti bene”, e che ammazza qualsiasi buona idea avuta fin lì dal film. Da un certo punto di vista è anche interessante constatare come nel 2019 ci fosse ancora della gente che aveva abbastanza fiducia nel futuro da inventarsi un film nel quale ogni singola frizione si risolve nella maniera più accomodante e stucchevole possibile. Da un altro, Last Christmas è il genere di film che vi farà agitare il pugno verso lo schermo per un’ora e quaranta, blaterando di buonismo e fantasticherie inutili. Consigliato se vi piace Emilia Clarke, sconsigliato da 9 dentisti su 10.

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