L’implacabile è su Netflix

L’implacabile, o L’uomo in fuga se preferite la traduzione letterale che fu usata anche per il romanzo da cui il film è tratto, costò circa 30 milioni di dollari, e ne incassò meno di 40. Non fu un vero flop, ma neanche un caso, e la tiepida accoglienza che gli riservò la critica contribuì a relegarlo allo status di culto nella migliore delle ipotesi, di film di seconda fascia nella peggiore. Riguardandolo oggi, tutto questo sembra assurdo: il film di Paul Michael Glaser si è rivelato, con il senno di poi, un’opera profetica e soprattutto incredibilmente influente; non necessariamente originale, visto che recuperava spunti letterari vecchi di decenni, ma aggiornandoli e reimmaginandoli alla luce di quello che gli anni Ottanta ci avevano raccontato fin lì (il film è del 1987) su quella che con una semplificazione estrema chiameremo “società dell’immagine”.

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L’implacabile e le sue influenze

Parlavamo di influenze e vecchi spunti recuperati: il film di Glaser nasce prima di tutto dalla mente di Robert Sheckley, e in particolare da due suoi racconti. Uno è Il prezzo del pericolo, che racconta la storia di un uomo che diventa il più famoso concorrente di reality show del mondo – in un mondo, peraltro, dove i reality show prevedono di fare cose pericolosissime per godersi il brivido. Dal racconto di Sheckley venne tratto un film francese, Le prix du danger, i cui produttori incidentalmente fecero causa proprio a L’implacabile per plagio, vincendo pure.

Schwarzy

L’altro racconto di Sheckley è La settima vittima, già portato al cinema da Elio Petri cambiando il numero delle vittime in dieci. Così Wikipedia ne racconta lo spunto iniziale: “Dopo l’ennesimo conflitto mondiale, i sociologi scoprono che la violenza è innata nell’uomo. Si decide quindi che, per scongiurare una futura guerra, tale violenza debba trovare sfogo. Questo è lo scopo della cosiddetta “catarsi emotiva”, un gioco che vede contrapposti, su base volontaria, delle vittime designate contro dei cacciatori con lo scopo di eliminarsi a vicenda”. Come avrete notato se già conoscete il film, lo spunto è ancora più simile a quello di L’implacabile di quanto lo fosse quello di Il prezzo del pericolo.

Non sono solo citazioni

Detto quindi della non completa originalità del romanzo di Stephen King, e quindi del film che ne è stato tratto (e d’altra parte King è sempre stato un fiero citazionista e non ha mai provato a nasconderlo), L’implacabile riesce però a declinare quelle idee in un modo che ancora oggi è tutto sommato moderno, e che al tempo probabilmente sembrava troppo esagerato per essere preso sul serio – se la gente che lo recensì nel 1987 potesse vederlo oggi per la prima volta, probabilmente scriverebbe un pezzo lodandone l’incredibile realismo, o alternativamente criticandolo per la sua scarsa inventiva.

L'implaschwarzy

Il modo in cui viene gestito il gioco del Running Man, nel quale ai galeotti è offerta la possibilità di guadagnarsi la libertà se sopravvivono a un gruppo di cacciatori di taglie che provano a farli fuori in diretta TV, ricorda molto da vicino i recenti Hunger Games: quello che conta non è più lo spirito dell’evento, il fatto che ci siano degli esseri umani in pericolo di vita pur di far divertire il pubblico, ma il modo in cui è presentato e confezionato. Il presentatore dello show televisivo diventa il villain per pura inerzia: è uno pagato per trasformare la morte in uno spettacolo, ma non si rende davvero conto di quello che sta facendo. È contemporaneamente un boia e un influencer ante litteram, un brand che soprassiede l’essere umano che pubblicizza.

Tutta la struttura del Running Man è de-umanizzante, e lo show è carne fresca e sanguinante per un pubblico rappresentato in maniera quasi Verhoeveniana, popolato di adorabili vecchiette assetate di violenza e di fanboy e fangirl dei differenti cacciatori di galeotti, a loro volta presentati come fossero dei wrestler più che degli assassini prezzolati. Aggiungete all’impasto il fatto che questa giustizia sommaria venga impartita direttamente dal programma televisivo che la mette in onda, al quale lo Stato ha delegato la gestione e ogni responsabilità, e otterrete un mix che forse negli anni Ottanta poteva sembrare ancora esagerato e fuori di testa, ma che oggi stupisce più che altro per la sua prescienza.

E poi ci si diverte

Che non è mai un particolare da sottovalutare: pur avendo la testa piena di idee alte e di spunti filosofici, L’implacabile è anche un action anni Ottanta caciarone e divertente, e non è neanche chiaro fino in fondo quanto “ci sia” e quanto “ci faccia”. Arnold Schwarzenegger in particolare è gestito come un mix tra la star di un reality show e una caricatura di sé stesso: si esprime esclusivamente a one liner, non ha mai un secondo di esitazione, sa di essere lui l’implacabile del titolo e il film diventa quindi una sua celebrazione, più che un’ordalia.

L'implacabile Schwarzy

Intorno a lui c’è un cast di cattivi da videogioco che oggi darebbero origine a una serie infinita di Funko Pop: c’è il killer elettrico, quello con la motosega, quello con il jetpack e il lanciafiamme, in un crescendo di assurdità alle quali si aggiungono morti violente e altrettanto assurde. Esattamente il genere di morte che farebbe (e fa, dopo la titubanza iniziale) esultare il pubblico del Running Man, ma anche lo spettatore medio di un action con Arnold Schwarzenegger: è soprattutto questa consapevolezza che ci fa infine propendere per il “ci fa”, e quindi stimare ancora di più questo capolavoro semi-dimenticato.

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