Facciamoci un applauso collettivo: Lupo vichingo ha dominato per una settimana la classifica di Netflix in Italia e ora, con calma, anche il resto del mondo se ne sta accorgendo lo sta premiando. Scritto e diretto da Stig Svendsen, norvegese cresciuto a due passi dal Circolo Polare Artico, è un thriller soprannaturale che tende all’horror senza mai abbracciarlo fino in fondo; e soprattutto, come suggerisce il titolo, è un film di lupi mannari, una rarità in questo mondo post-Twilight che li ha sottomessi in favore dei più vendibili vampiri. C’è già chi, con la calma e la moderazione che contraddistinguono i nostri tempi, l’ha proclamato “uno dei migliori film di lupi mannari di sempre”. E in effetti, da un titolo clamoroso come Lupo vichingo è più che lecito attendersi un prodotto all’altezza. È andata veramente così? Fu vera gloria, come diceva quello?

Buongiorno, siamo i posteri e siamo qui per emettere l’ardua sentenza. Lupo vichingo, o Vikingulven se preferite, non è il miglior film di lupi mannari di sempre e probabilmente non è neanche uno dei migliori. È però un ottimo film che mischia mitologia norrena, un po’ classico orrore Universal e pure tanta detection, e che tiene il punto dalla prima all’ultima scena prendendosi sempre molto sul serio. È facile buttarla sullo stereotipo e associare questa totale assenza di ironia alla provenienza dell’autore; in realtà il discorso è che la storia di Lupo vichingo è tragica e dolorosa, e come tutte le storie di lupi mannari parla di licantropia anche per parlare di bullismo, emarginazione, integrazione e degli inevitabili cambiamenti incontro ai quali si va durante l’adolescenza.

Vichingo

Stig Svendsen è nato e cresciuto a Brøstadbotn, un posto talmente piccolo che su Wikipedia non c’è scritto quanti abitanti abbia, ma anche un posto di paesaggi pazzeschi, natura incontaminata e tutto quanto ci si aspetta dalla Norvegia più selvaggia. Svendsen lo sa e ci gioca con gran gusto, accompagnandoci per mano per le foreste intorno a Nybo, il paese inventato ma plausibilissimo nel quale si svolge la storia, oppure facendoci ammirare il panorama con una cascata di riprese aeree (un giorno ci sarà da parlare di quanto i droni abbiano cambiato il cinema contemporaneo). Insomma: Lupo vichingo è, come capita spesso al genere, uno slow burn, un film che gioca sull’atmosfera prima ancora che sui jump scare o l’azione continua.

La storia è quella di Thale, diciassettenne appena trasferitasi a Nybo con la famiglia (madre, sorella e patrigno, con un buco nel cuore a forma di padre morto) è subito coinvolta nelle piccole magagne locali dei suoi coetanei. Immaginate un qualunque teen movie con la ragazza un po’ strana che viene dalla città, la bella del paese che la odia a prima vista, il bello del paese che se ne invaghisce al volo; togliete la patina americana che ricopre di solito questo genere e metteteci nebbia, silenzi, buio e freddo. Le dinamiche non cambiano: Thale conosce gli altri ragazzi del posto a un party sulla spiaggia. Cambia l’ambientazione: la spiaggia è di fianco a un molo su un lago ghiacciato, e nell’altra direzione c’è solo foresta e neve.

Thale

È in questo contesto di ombre, nebbia e disagio giovanile che Lupo vichingo fa comparire il suo, ehm, lupo. Che attacca la succitata bella del paese, dando così il via al lato thriller della vicenda, ma che ferisce anche Thale, la quale comincia a esperire tutti i classici sintomi della licantropia – e questo è il lato più tipicamente di genere del film. Abbiamo quindi la madre di Thale, poliziotta, che deve scoprire chi ha attaccato la povera Elin, e la stessa Thale, che ha visioni, allucinazioni, cambi repentini di umore e personalità. Se avete visto anche solo mezzo film di lupi mannari nella vostra vita sapete già dove si sta andando a parare, e il punto è che Lupo vichingo funziona proprio per questo motivo.

Liberato dalla necessità di inventarsi qualcosa di originale, Svendsen può permettersi di mettere in scena un film da manuale, con tutti i pregi e i difetti del caso. Il ritmo è quello giusto, la storia ragionevolmente coinvolgente e le due protagoniste molto brave; ma d’altro canto i beat di trama sono esattamente quelli che ci si aspetta, e Lupo vichingo assomiglia un po’ troppo spesso alla fredda esecuzione di uno spartito standard. Svendsen maneggia bene non solo i droni e le riprese d’atmosfera ma anche l’azione e la paura, e riesce a non cadere quasi mai nel tranello dell’usare il buio pesto per coprire altre magagne: se ultimamente il Netflix look vi ha un po’ stufato, Lupo vichingo potrebbe sorprendervi positivamente.

Lupo vichingo ricerca

C’è però un abisso tra “un buon prodotto di genere” e “il miglior film di genere di sempre”. Lupo vichingo non inciampa mai, ma ha anche pochi guizzi, e quelli che ci sono sanno comunque di già visto. Il film arriva persino a essere citazionista in maniera esplicita e un po’ gratuita: c’è una scena di autopsia, per esempio, nella quale i dialoghi sono ripresi pari pari dalla sequenza analoga di Lo squalo (al quale il film fa riferimento anche altre volte). Certo, sono scelte che dimostrano grande amore per il cinema giusto, ma sono anche scorciatoie un po’ facili e ammiccanti, che stonano con la faccia di pietra del resto dell’opera.

Una cosa va detta su Lupo vichingo, che potrebbe spiegare il suo improvviso successo: come accennavamo all’inizio, i film di lupi mannari sono in via d’estinzione, soprattutto se non sono mischiati con almeno un pizzico di commedia. Il film di Svendsen non vuole far ridere, non vuole divertire, non vuole essere altro che novanta minuti di gelido thriller con i lupi mannari, tenuto insieme dai paesaggi artici e da due protagoniste che comandano ogni scena nella quale appaiono. Per rispondere alla domanda iniziale: non è all’altezza del suo titolo, ma è più che sufficiente per regalarvi una piacevole serata mannara.

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