Per capire cosa sia Matrix Resurrections bisognerebbe, per citare la filosofia stessa della saga, vederlo e farne esperienza. È quasi impossibile infatti descrivere a parole il funambolico e talvolta schizofrenico pasticcio fatto da Lana Wachowski. La frase che, a parole, meglio racconta il primo strato interpretativo è: un gigantesco dito medio alla Warner e in parte anche ai fan, come spiega bene Gabriele Niola nella sua recensione. 

La prima ora, in particolare, è un’arguta quanto esplicita riflessione “meta” sulle aspettative e l’esigenza di continuare a ripetere all’infinito le stesse storie. Un tema in realtà già presente nel dialogo con l’Architetto in Matrix: Reloaded. Lì si diceva – semplifichiamo – che per arrivare alla configurazione attuale dell’illusione le macchine hanno dovuto riscrivere più volte le regole che la governavano affinché l’umanità la accettasse. Una storia raccontata più volte, ma con un’unica scelta finale, con dei passaggi obbligati con cui confrontarsi. Sul finale di Resurrections l’eletto (o gli eletti) rimodellano la realtà. Cercheranno loro di renderla più accettabile e convincente là dove le macchine hanno fallito. Sembra, alla luce del dialogo con l’Architetto, l’ennesima vittoria del “sistema”.

E infatti, sebbene controvoglia, costretta dal “con te o senza di te” Lana Wachowski si è ritrovata ancora una volta in Matrix spinta dall’industria. Prima alla disperata ricerca di un nuovo bullet time, e quindi di una nuova leva per vendere. Poi serenamente convinta di usare questa tela bianca come spazio per esercitare la propria totale libertà. 

matrix redpilling resurrections

Fare un reboot, un remake o un sequel? Ha trovato la soluzione facendo tutte e tre le cose contemporaneamente. Matrix: Resurrections porta avanti Neo e Trinity come farebbe un qualsiasi quarto capitolo. Usa però il linguaggio di un remake, molto fedele all’originale, solo consapevole di essere un fratello minore. Infine, nonostante le continue smentite, è chiaro che i motori si sono riaccesi con la speranza di un rilancio sulla lunga distanza. 

Sarà comunque possibile dopo l’insuccesso economico che ha colpito il film? A Hollywood non è mai detta l’ultima parola…

Non è semplice da apprezzare Matrix Resurrections. Occorre meno amore verso la saga di quanta ne abbiano le persone che, fino a qui, hanno supportato e voluto l’esistenza stessa di questo film. Voglio sposare ancora una volta le parole scritte nella recensione: è un film più per cinefili che per fan. Spudoratissima la Wachowski sputa infatti sul piatto da cui mangia. Si mostra stizzita anche verso quella comunità che ha amato così tanto The Matrix da fraintenderlo, piegarlo al proprio volere con mille interpretazioni. Dalle più plausibili (la metafora transgender e la critica al capitalismo) agli usi impropri della terminologia creata dalla saga. Resta negli annali l’esplicita e secca risposta della regista a Elon Musk che potete leggere qui sotto.

Se la stessa risposta l’ha sentita lo spettatore durante la visione è perfettamente normale. Sentirsela dire così “de botto e senza senso” non è un atto di mancanza di rispetto. È una ribellione salutare, un gesto anarchico di libertà creativa che risuona ancora più potente in un decennio di “coccole” cinematografiche proposte da Hollywood. Cos’è meglio: uscire rincuorati delle proprie convinzioni guardando Don’t Look Up o sentirsi presi a calci senza motivo alla fine di Resurrections? 

Nessuno, di recente, ha avuto il coraggio di fare la stessa cosa, con la stessa rabbia e incuria verso la propria creatura. Un autosabotaggio che è però un’affermazione di potere totale del creatore, per usare un termine che potrebbe essere pronunciato da Neo. Fuor di metafora: è la regista che afferma se stessa come unica artefice dell’illusione. Ci dice che può crearla e disfarla quando vuole. La disillusione dello spettatore è un atto distruttivo e sconvolgente quanto il risveglio degli umani nel mondo delle macchine. La pillola rossa rivela che siamo davanti a uno schermo, in cui viene proiettata un’opera di finzione, pensata da una o più persone, finanziata da altre.

In questo Matrix Resurrections è quanto di più post moderno si possa trovare. Attenzione però, il gioco non è molto differente da quello fatto dai vari Ralph Spaccatutto e Space Jam 2, dove i personaggi si perdono in riferimenti meta e smettono di essere oggetti di immedesimazione. Loro lo fanno per compiacere il pubblico adulto, Lana Wachowski lo fa per sbeffeggiarlo. 

Quello che stona, nel complesso, è la seconda parte del film. Come può sopravvivere la credibilità di un’avventura che vuole emozionare anche quando ci si è premurati di distruggerla passo per passo? Il finale sull’amore come batteria che regola il mondo, la chiusura sulla speranza e le seconde possibilità perdono di ogni interesse rispetto alla decostruzione del cinema come “prodotto”. 

C’è qualche possibilità di voler bene a un film che si mette il bastone tra le ruote e che termina come tutto quello che dice di odiare? Certo che sì. Perché per un’ora e passa si è sentita la voce di un’industria uscita dalla caverna platonica dove su un muro vengono proiettate ombre, mentre fuori c’è la vita vera. Matrix porta l’esterno (la verità) all’interno della grotta in cui stanno legati gli uomini a guardare queste figure irreali.

È un tentativo di ribellione fatto “nel sistema” con i mezzi dell’oppressore. È uno sfogo esagerato, contraddittorio. Però ambisce a rivelare la verità, non della vita, ma dell’origine del film stesso. Ed è per questo che sbattendosene di essere perfetto, fregandosene altamente di tutto ciò che è venuto prima, Matrix Resurrections è un altissimo esempio di libertà creativa. La più grande vittoria di Lana Wachowski contro le macchine. 

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