Questo speciale fa parte della rubrica Tutto quello che so sugli stunt l’ho imparato da Mission: Impossible

Uno dei motivi per cui abbiamo deciso di recuperare l’intera saga di Mission: Impossible è per scoprire, con tutta la precisione scientifica garantita dal senno di poi, in quale momento precisamente la saga è diventata quello che è oggi – in maniera analoga a quanto successo, per esempio, con Fast Five. Dopo un ripasso di Mission: Impossible 2 possiamo affermare con sicurezza che non è questo il momento che stavamo cercando: il film di John Woo è, come il primo, un thriller vecchia scuola con pesanti eco bondiane e le cui ambizioni (narrative ma anche produttive) non sono ancora abbastanza ampie da abbracciare tutto il mondo e il suo destino.

Mission: Impossible 2 è old school anche in quanto sequel. Quello che vogliamo dire è che oggi un “secondo film” in un franchise serve non solo per raccontare una storia (anzi, quello è spesso secondario), ma per portare avanti una narrazione più ampia fatta in gran parte di riferimenti ai capitoli precedenti e di promesse relative a quelli successivi. Il film di John Woo, invece, non ha queste pretese: è un secondo capitolo, con lo stesso protagonista, qualche elemento che ritorna, ma con una storia nuova da raccontare – nuova e, soprattutto, autoconclusiva.

Thandiwe

In effetti nel 2000 non avremmo mai immaginato che Mission: Impossible sarebbe, nel giro di vent’anni, diventato un veicolo per l’ego di Tom Cruise e la sua voglia di andare ogni volta un po’ più vicino alla morte (e che l’avremmo amato così tanto). Al tempo sembrava che l’idea fosse: abbiamo un personaggio (e un attore che lo interpreta alla perfezione), abbiamo alcuni punti fissi, abbiamo una serie di storie da raccontare che affideremo ciascuna a un grande autore. Praticamente una serie antologica, una raccolta di interpretazioni differenti dello stesso archetipo date in mano ai migliori su piazza per quel che riguarda il genere.

John Woo è sempre stato uno dei migliori su piazza, e nel 2000 era già di casa a Hollywood ed era sopravvissuto persino all’ordalia di dirigere Nic Cage in Face/Off. Al personaggio, Brian De Palma aveva portato la sua sensibilità da re dei gangster, inscenando un primo capitolo che mixava alla perfezione il techno-thriller moderno e certe tentazioni anni Settanta. Con Mission: Impossible 2, John Woo fa innanzitutto sé stesso, tra sparatorie e scene d’azione coreografate e dirette da fuoriclasse, slow motion come se piovesse e uccelli che spiccano il volo. Ma fa anche un’altra cosa che è inaspettata solo se non conoscete la sua filmografia pre-Hollywood: inietta cioè nella storia un’abbondante dose di melodramma.

Mission Impossible 2

È la vera cifra stilistica di Mission: Impossible 2 e ciò che lo fa staccare nettamente dal precedente. Il primo film raccontava di un uomo braccato, un Rambo ipertecnologico che si trasformava da preda innocente in predatore. Il secondo capitolo coinvolge invece un personaggio che non è del mestiere: Nyah, interpretata dall’allora emergente Thandiwe (fu Thandie) Newton, una ladra professionista che si è però mai trovata invischiata in pericolose missioni internazionali nelle quali la sua stessa vita è a rischio – o forse sì? Non è un caso che Woo abbia dichiarato a più riprese il suo amore per Hitchcock: nel triangolo pericoloso che coinvolge Ethan, Nyah e il villain Sean Ambrose c’è molto di Notorious – L’amante perduta. Più in generale, il film ha un ritmo meno travolgente e un’azione meno incalzante rispetto al precedente: c’è più tempo per coltivare il rapporto tra i personaggi, con un’attenzione in particolare a Nyah che viene di solito riservata ad attori e attrici che si prevede di riportare a bordo nei capitoli successivi.

Ovviamente, quando l’azione c’è, è azione messa in scena da John Woo, con un protagonista che già nel 2000 studiava i modi più creativi per mettere a rischio la propria incolumità. Di Mission: Impossible 2 si ricordano in particolare tre stunt di Tom Cruise. Il primo è il tentativo di resistere alla seduzione di Thandiwe Newton, fallito clamorosamente. Il secondo è quello con cui si apre il film, una brutale dimostrazione di forza senza alcun peso narrativo nel film ma utile a reintrodurci alla grande il personaggio dopo quattro anni di assenza. Parliamo di questa, ovviamente, girata senza reti di protezione e durante la quale Cruise si è pure slogato una spalla.

E poi c’è il combattimento finale tra Cruise e Dougray Scott, durante il quale si vede un coltello lanciato dal secondo che si ferma a pochi centimetri dall’occhio del primo: ovviamente è successo davvero, e la produzione ha dovuto inventare un sistema di specchi e leve per calcolare alla perfezione la traiettoria dell’arma (che era 100% vera) di modo che si fermasse prima di sfondare la cornea di Tom Cruise. A confronto di questi due momenti, il resto di Mission: Impossible 2 è quasi addomesticato – o almeno lo sarebbe se dietro ogni sparatoria e dietro ogni esplosione non ci fosse la mano di John Woo.

L’ultima cosa che vogliamo ricordare prima di prepararci all’ingresso in scena di J.J. Abrams è la colonna sonora: nel 2000, chiedere ai Limp Bizkit di comporre la loro versione del tema di Mission: Impossible scritto da Lalo Schifrin era ancora considerata una buona idea. Il mondo nel 2023 non è un granché, ma almeno in qualcosa siamo migliorati.

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