Questo speciale su Mission: Impossible – Protocollo fantasma fa parte della rubrica Tutto quello che so sugli stunt l’ho imparato da Mission: Impossible

La scorsa settimana ci siamo lasciati con un paradosso: Mission: Impossible III incassò meno del predecessore, eppure salvò la saga da un prematuro declino e aprì la strada a tutti i sequel. Il paradosso è solo apparente: il terzo capitolo uscì senza troppe aspettative, affidato a un regista esordiente sul grande schermo, e dimostrò che il pubblico aveva ancora voglia di Ethan Hunt e pure che la saga poteva proseguire anche senza bisogno di coinvolgere a ogni capitolo un Autore Affermato con tutte le maiuscole. Mission: Impossible – Protocollo fantasma fu la logica conseguenza di questi ragionamenti un po’ artistici, un po’ commerciali: con alle spalle l’appoggio sia di Tom Cruise sia di J.J. Abrams, che nel frattempo era diventato un Nome, il franchise poteva permettersi di rischiare un’altra volta, affidandosi a uno che non era un esordiente assoluto, ma che non aveva mai diretto prima un live action.

Patton

Brad Bird è uno dei segreti del successo di Protocollo fantasma, che sfiorò i 700 milioni di dollari d’incasso rimettendo definitivamente Mission: Impossible in carreggiata. Prima del quarto capitolo della saga di Ethan Hunt aveva diretto solo animazione, e neanche troppa: Il gigante di ferro, Gli Incredibili, Ratatouille. Tutta però accolta con favore almeno dalla critica, e in un paio di casi salutata come un capolavoro. Il quarto M:I fu la sua grande occasione – sempre che vogliamo considerare il passaggio dall’animazione al live action un passo avanti e non uno spostamento di lato –, e lui la sfruttò in ogni modo possibile.

Protocollo fantasma è innanzitutto più grosso del precedente, una regola fondamentale che però diventa più difficile da rispettare a ogni sequel, come insegna Fast & Furious. È una sequenza ininterrotta di set piece ambientati nei soliti luoghi assurdi e bellissimi (a questo giro Mosca, Dubai e Mumbai – e scritti con la perizia di chi ha visto un milione di James Bond e ha capito come prendere ispirazione senza copiarlo spudoratamente. In Mission: Impossible III c’era una magnifica scena da heist movie; in Protocollo fantasma ce ne sono due, ed è difficile scegliere la migliore. Sono più intricate, più ricche di gadget e soprattutto di improvvisazioni, e sono anche gestite meglio in termini di montaggio ed equilibrio tra personaggi.

Protocollo fantasma familia

Vale lo stesso per le sequenze d’azione propriamente dette: ci sono più inseguimenti, più sparatorie, più scazzottate e coreografate meglio (merito anche dell’impegno del cast: per esempio la scelta di Paula Patton e Léa Seydoux di farsi da sole i propri stunt seguendo l’esempio di Cruise). Le esplosioni sono più grosse e, forse per la prima volta nella saga, a essere in gioco è letteralmente il destino dell’umanità: Protocollo fantasma potrebbe essere il primo Mission: Impossible nel quale Ethan Hunt salva direttamente il mondo. In generale, il quarto capitolo ha quella tendenza al gigantismo che è propria dei sequel ambiziosi e che è sicuramente influenzata anche dal regista, uno abituato a poter far succedere quello che voleva sullo schermo e che per la prima volta si scontrava con i limiti dell’essere umano.

Probabilmente non è un caso che il primo live action di Brad Bird abbia avuto come protagonista Tom Cruise: quando sei abituato a maneggiare personaggi animati, che non si fanno male se non lo decidi tu, trovarti a dirigere un tizio che non ha problemi a farsi appendere al Burj Khalifa per girare la scena di metà film è sicuramente un vantaggio. Protocollo fantasma contiene uno dei più grandi stunt di Tom Cruise, nonché forse il primo in un Mission: Impossible che ti porta a domandarti “l’avrà fatto davvero?” (e risponderti “no dai, non l’ha fatto davvero, sarà un green screen”).

L’aspetto più interessante del film, però, almeno con il senno di poi, è notare quanto fosse ancora un work in progress – quanto la saga stesse costruendo la sua nuova identità procedendo anche per errori e tentativi. Era chiaro fin da Mission: Impossible III (forse persino dal II) che l’intenzione era quella di arrivare a costruire una Familia, un gruppo di persone fedeli a Ethan Hunt e che incidentalmente fanno anche il suo stesso lavoro. Luther Stickell fu il primo, seguito da Benji e dall’introduzione di un elemento esterno e quindi potenzialmente di disturbo, o quantomeno catalizzatrice di attenzioni e direzioni narrative (stiamo parlando della moglie di Ethan, Julia).

Protocollo fantasma procede su questa strada. William Brandt/Jeremy Renner, per esempio, che oltre a portare nuove skill al gruppo è anche legato direttamente a Ethan, venne introdotto con la chiara intenzione di renderlo un personaggio fisso del franchise: le cose non andarono proprio così, visto che Renner girerà solo un altro Mission: Impossible dopo questo. Peggio ancora andò a Jane Carter/Paula Patton, che non tornerà più nonostante un primo impatto clamoroso. Il finale di Protocollo fantasma in questo senso è uno sfacciato tentativo di ufficializzare la nascita di un gruppo, che però cambierà già dal capitolo successivo e ci metterà un po’ ad assumere una forma definitiva.

Tric

Un’ultima curiosa riflessione. L’evento scatenante di Protocollo fantasma, per il quale Ethan viene incastrato (un’altra volta) e che provoca lo scioglimento dell’IMF, è un attentato al Cremlino, che salta per aria in maniera molto spettacolare: era il 2011, e si poteva ancora farlo. Fosse stato un film, per dire, del 2017, al posto della Russia ci sarebbe stato un anonimo Stato-canaglia. Fosse uscito nel 2022, invece, il Cremlino sarebbe stato di nuovo consentito, e magari l’esplosione sarebbe stata accompagnata da nomi e cognomi di qualche vittima eccellente.

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