Moulin Rouge! è su Star di Disney+

Ora che sono passati vent’anni dall’uscita di Moulin Rouge! possiamo riguardarlo con il senno di poi e ammetterlo candidamente: non eravamo pronti.

Non lo era chi ha odiato il terzo film di quel genio illuminato di Baz Luhrmann, definendolo eccessivo, pacchiano, di cattivo gusto, banale, vuoto, e si sbagliava di grosso. Ma forse non lo era neanche chi l’ha adorato fin dal primo fotogramma e non poteva sapere che tante delle follie che riempiono le oltre due ore di questa tragedia greca ma anche francese e un po’ indiana sarebbero diventate con gli anni parte del linguaggio di un’intera generazione. Si potrebbe anche avanzare l’ipotesi che non lo sapesse neanche Baz Luhrmann, o che per lo meno non avesse del tutto idea di quanto le sue intuizioni composte di pasticci di cultura pop sarebbero state poi riassorbite dalla cultura pop stessa e trasformate in tropes, ma nell’accezione più nobile del termine. Ma provate ad andare a leggere cosa scrive il regista australiano nelle note di accompagnamento dell’edizione speciale del film, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto «decodificare tutto ciò che rendeva eccitante il Moulin Rouge nel 1899 ed esprimerlo in un modo che il pubblico di oggi possa apprezzare»: Luhrmann sapeva di stare girando un film che avrebbe trasceso il successo in sala per diventare un archetipo.

“Pasticcio” è la parola che meglio descrive Moulin Rouge! in tutti i suoi aspetti; non inteso come disastro o film sconclusionato, ma in senso culinario: c’è dentro un po’ di tutto, in termini di ispirazioni narrative che vanno da svariati secoli prima di Cristo all’altroieri, e anche di suggestioni visive – Luhrmann è stato uno dei primi registi in area Hollywood (sì, lo sappiamo, è australiano, ma lavora da sempre con l’America e Moulin Rouge! è una co-produzione internazionale) a scoprire il cinema di Bollywood e anche l’esperienza di andare in un cinema in India a vedere un film bollywoodiano, e a trasportare quell’estetica e quegli eccessi dalle nostre parti.

 

 

L’India, la sua cultura e il suo cinema sono solo un pezzo di un grande puzzle che comprende anche la tragedia greca (sempre nel succitato DVD Luhrmann cita la leggenda di Orfeo ed Euridice come una delle sue prime ispirazioni), l’opera lirica, Shakespeare… E, ovviamente, il Moulin Rouge quello originale, teatro, vaudeville, cabaret, bordello, il luogo dove è nato il can-can ma anche l’originale pastiche, dove già allora, alla fine del secolo (non lo scorso, quello prima) si mescolavano influenze da tutto il mondo. C’è ovviamente un po’ di naturale retorica associata all’idea del Moulin Rouge come luogo dell’assoluta libertà e nido di bohémien che dedicavano la propria esistenza alla ricerca della bellezza e della verità; ma il cabaret di Montmartre è stato effettivamente per anni sia un simbolo sia un vero ritrovo per artisti altrimenti tenuti ai margini – ed è proprio all’incrocio tra questa esagerazione mitologica e il fondo di verità che vi si nasconde dietro che si muove il film di Luhrmann.

La storia è talmente classica da essere prevedibile fin dalle prime scene, e il fatto che Moulin Rouge! si presenti come un film dentro un film (che si apre con una quinta che si solleva e lascia spazio allo schermo dove gli spettatori del film nel film stanno per assistere al film che stiamo guardando anche noi in quanto spettatori del film sul film nel film) aiuta subito a chiarire la natura meta – e sperimentale dell’opera – che peraltro aggiunge un ulteriore strato di finzione nel momento in cui si rivela essere la storia di uno scrittore innamorato di una ballerina che compone un’opera che parla della storia d’amore maledetta tra un suonatore di sitar e una cortigiana. Più ancora di Romeo + Giulietta, Moulin Rouge! è un film profondamente consapevole di essere un film, una messa in scena su un palco popolato di figure archetipiche che fanno cose archetipiche in un contesto narrativo assimilabile a quello della tragedia greca (secondo l’antica formula che profuma di reminiscenze scolastiche secondo la quale la commedia comincia male e finisce bene e la tragedia comincia bene e finisce male).

 

 

A fare la differenza è quindi il modo in cui questa storia viene raccontata, e questo modo è il cinema. “Be’ ma grazie” direte voi, “è un film”. Il punto è che Moulin Rouge! è sì un film, ma è anche cinema nel suo significato più nobile e primigenio: non è la realtà, non è il racconto della realtà con un linguaggio il più reale possibile, ma è magia, qualcosa che può succedere solo su un grande schermo; è un film surreale e scombinatissimo, nel quale Luhrmann sfodera tutto il suo repertorio, dalle inquadrature che sembrano quadri a certi trucchi da videoclipparo da quattro soldi (slo-mo anni Ottanta, zoomate improvvise, persino effetti sonori da commedia slapstick muta!) che nelle sue mani diventano sublimi. Moulin Rouge! vinse due Oscar (produzione e costumi), ed è allucinante pensare che venne snobbato per Miglior regia ma soprattutto per Miglior montaggio – una delle armi segrete di Luhrmann come aveva già dimostrato in R+G, e che qui raggiunge vette di frenesia e destrutturazione di ogni scena che l’australiano non toccherà mai più in carriera.

Uno dei grandi segreti del successo di Moulin Rouge! è la totale dedizione con cui il cast (soprattutto Ewan McGregor e Nicole Kidman, ma anche un eccezionale Jim Broadbent e il John Leguizamo più inaspettato di sempre) accetta di stare partecipando a quella che è contemporaneamente una commedia, una tragedia, una farsa, una satira e un omaggio fatto sotto forma di esagerazione parossistica, e accetta quindi di dover vivere ogni scena come un’esperienza a sé, e di dover modulare la propria recitazione a seconda della situazione. Kidman in particolare trionfa in questo senso, per la capacità camaleontica di passare a ritmo di can-can da sexy seduttrice ad amante dal cuore spezzato ad artista sofferente e costretta a confrontarsi con la propria mortalità; la sfida che le lancia Luhrmann (a lei e al resto del cast, ma soprattutto a lei) è improba: “ci sono delle scene nelle quali dovrai aprire il cuore e donarci tutta te stessa e la tua fragilità” immaginiamo che le abbia detto così, “e altre dove dovrai spingere sul pedale dell’overacting e sembrare uscita da una parodia, e dovrai essere sempre credibile”.

 

Jim Broadbent

 

Tutto quanto detto finora, naturalmente, avviene cantando. Non sempre ma molto spesso: Moulin Rouge!, ed è incredibile pensare che lo stiamo scrivendo solo ora, è un musical. Un jukebox musical se preferite un’espressione più precisa: c’è una sola canzone originale scritta per l’occasione, tutte le altre sono classici del pop e del rock il cui testo si adatta alla perfezione alla trama del film – e quando non lo fa viene cambiato e adeguato. La differenza con gli altri classici del genere, da Rock Around the Clock a La febbre del sabato sera, è che i pezzi di Moulin Rouge! sono riscritti, riarrangiati, reinterpretati, cambiati di genere, spesso mischiati tra loro in modi che Internet imparerà ad apprezzare solo tanti anni dopo.

Pensate a quanti video mashup di pezzi famosi sono comparsi su YouTube e dintorni negli ultimi anni, e che successo hanno avuto (in termini di visualizzazioni per lo meno); pensate a quanti artisti con milioni di follower hanno costruito la loro carriera sulle stesse cose che Moulin Rouge! faceva nel 2001. Pensate a serie recenti che hanno usato il musical nello stesso modo, una su tutte Crazy Ex-Girlfriend che ha tra l’altro omaggiato proprio il film di Luhrmann più e più volte. L’australiano ci aveva visto lungo, e aveva capito che gli anni in cui stavamo entrando nel 2001 sarebbero stati anni di riciclo creativo, di mischioni, di frullati di influenze e di rimasticazioni di vecchie formule – che il riciclo e gli accostamenti improbabili sarebbero diventati presto un tratto definente della nostra estetica.

 

 

Se oggi abbiamo queste cose è merito di Moulin Rouge!. Benvenuti nel 2021, Baz Luhrmann vi stava aspettando da vent’anni.

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