Non c’è arte senza qualcuno che la conservi affinché sia disponibile alla fruizione per le generazioni successive. È così anche per la settima arte. Abbiamo perso una quantità considerevole di opere nell’epoca del muto per via dell’uso di pellicole al nitrato altamente infiammabili che causano incendi negli archivi. Il più drammatico fu quello dello studio 20Th Century Fox avvenuto nel 1937 con la perdita di tutti i negativi originali delle opere da loro prodotte prima del 1935. Oggi gran parte degli archivi sono sempre in mano agli studi cinematografici che detengono i diritti dei film, mentre sono sempre meno i laboratori in grado di trattare e restaurare le pellicole. Eppure, dicono gli esperti, la pellicola è ad oggi ancora il miglior supporto possibile per la conservazione delle opere. Ve lo raccontavamo in questo articolo: non possiamo fidarci del digitale come strumento di archiviazione

Vi invitiamo a leggere l’approfondimento che entra nello specifico del dibattito tra esperti, ma il tutto potrebbe essere sintetizzato così: la celluloide ha dato prova di una grande tenuta nel tempo. Il digitale non ancora. A rendere complesso il mantenimento dei file master è l’esigenza di memorie fisiche ben archiviate e organizzate (c’è il rischio di “perdere” i film semplicemente dimenticandosi dove sono stati copiati), di migrazioni regolari verso supporti nuovi, dato che con il tempo gli hard disk potrebbero danneggiarsi e le conversioni nei nuovi formati potrebbero essere imperfette.

Martin Scorsese, con la sua Film Foundation, ha supervisionato il restauro di Sentieri selvaggi presentato al TCM Classic Film Festival. Per l’occasione si è tornati a parlare della preservazione delle opere in pellicola. C’è chi come Jeff Lambert – Executive Director del National Film Preservation Association – ha sottolineato l’importanza dei magazzini: con ispezioni regolari e sistemi di controllo della temperatura si può permettere alle bobine di conservarsi in maniera ottimale a poco costo

Non è più questione di digitale contro pellicola

È quello che ha detto Greg Lukow, a capo del centro di conservazione audiovisivo della Biblioteca del Congresso. Anche se molti archivisti considerano ancora la pellicola un supporto superiore, bisogna cambiare paradigma di pensiero: “È una questione di pellicola e digitale”. Per un restauro ottimale occorre infatti abbracciare entrambi i formati, combinando il digitale con i processi analogici. Si scansionano i materiali, si fa editing e si puliscono le immagini in digitale. Il risultato viene trasposto in DCP (lo standard digitale per le sale) e in alcuni casi si stampa anche una copia in 35mm. 

Il problema dei restauri è spesso di fedeltà. Bisogna lavorare in continuo compromesso tra la pulizia dell’immagine, l’alta definizione, e l’esperienza visiva originaria. Non bisogna, in altre parole, restaurare troppo, arrivando così a perdere l’aspetto visivo originario. Avere la pellicola master insieme a una varietà di copie, è importante per ricreare la dinamica visiva originaria. 

Lukow è parzialmente una voce contrara rispetto ai dubbi sulla tenuta del digitale. Sostiene che l’Hollywood Reporter, che per primo ha scritto sul rischio del decadimento digitale, abbia fatto allarmismo più di quanto necessario. Il problema era maggiore 15 anni fa, spiega, ora le cose vanno molto meglio. Durante le migrazioni dei file oggi ci sono sistemi di verifica molto efficaci che si assicurano che non ci siano errori. Spiega poi che alla Biblioteca del Congresso possiedono un’infrastruttura di preservazione delle opere da 1 petabyte (mille terabyte). Ovviamente sono molto fiduciosi nella sua tenuta. 

La pellicola non può scomparire

Che sia digitale o pellicola, i grandi film degli studio non rischiano di scomparire. Il problema semmai è per i cineasti indipendenti. Quelli che mostrano i film nei festival senza trovare distribuzione. La Film Foundation di Scorsese propone delle regole da seguire per la conservazione “casalinga” delle opere. Tra queste c’è l’indicazione di migrare almeno una volta all’anno i file assicurandosi di avere copie multiple. Eccoci ancora al problema del digitale: tutto questo, fatta in larga scala, è molto più costoso di un buon archivio per le pellicole. Non sul breve ma sul lungo periodo. 

Gli archivisti hanno però un’altra preoccupazione: stanno chiudendo i laboratori in grado di lavorare sulla pellicola. Ce ne sono solo tre negli Stati Uniti. Spiega Lukow che ci sono fornitori che supportano l’infrastruttura delle apparecchiature fotochimiche che hanno cessato l’attività. Non vede prospettive di un ritorno. 

Girare in 70mm per tenere aperti i laboratori

A impedire che queste attività scompaiano ci sono i registi come Martin Scorsese, Christopher Nolan e Quentin Tarantino e tutti coloro che ancora girano in pellicola. Così facendo portano lavoro e denaro su tutta la “filiera della celluloide”, cioè a partire da chi deve lavorare la pellicola a chi deve avere i mezzi e le conoscenze tecniche per mostrarle al pubblico. Girare un film in 70mm significa quindi dare anche una spinta positiva a un processo a catena che mantiene in vita strutture essenziali perché le opere d’arte sopravvivano nel tempo. Anche nel cinema ci sono le “scelte responsabili”. 

Fonte: Indiewire

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