In attesa dell’uscita di Creed 3, il primo film della saga di Rocky Balboa senza Sylvester Stallone, facciamo un ripasso dell’intero franchise. Oggi è il turno del sempre più autobiografico Rocky III

Se avete letto i nostri due precedenti speciali dedicati a Rocky già saprete qual è secondo noi il modo migliore per guardare al franchise: interpretandolo come un’autobiografia mascherata (e neanche troppo bene) di Sylvester Stallone. Il discorso vale anche, forse soprattutto, per Rocky III, non a caso uscito pochi mesi dopo Rambo: il 1992 è per Stallone l’anno dell’esplosione definitiva, quello che lo trasforma in una superstar affermata – non più un principiante che grazie alla sua proverbiale fortuna è riuscito a sfondare, ma una garanzia, un nome da piazzare in cima a una locandina per garantirsi il successo. Soprattutto, non più un pesce fuor d’acqua.

In questa abusatissima espressione sta il cuore di Rocky III. Se Rocky ci mostrava l’ascesa verso il successo di un signor nessuno con una gran voglia di diventare qualcuno, e Rocky II ci mostrava i primi dubbi di un tizio colpito dalla sindrome dell’impostore e incapace di gestire la sua nuova popolarità, Rocky III è il film che certifica la mutazione di Rocky Balboa da pugile di strada a personalità pubblica, a VIP, anche a uomo-simbolo della città (anche nella vita vera). Esattamente quello che stava succedendo a Stallone in quegli anni: i video che si vedono nel film di Rocky ospite al Muppet Show e alla cerimonia degli Oscar sono veri video d’archivio della vita di Sly, com’è vero tutto il merchandise dedicato a Rocky che si vede nel film.

Rocky III Balboa

Stallone sa come funziona lo sport, e sa che lo sport è una grande metafora della vita. E quindi sa che, una volta che sei arrivato, il primo rischio che corri è quello di diventare una parodia di te stesso, un brand e non più un atleta – con tutte le ripercussioni negative che questo cambio di status ha sulle tue prestazioni. Il Rocky di Rocky III è stanco, meccanico, non sembra neanche stupirsi troppo quando Mickey gli confessa di avergli organizzato solo incontri facili negli ultimi dieci anni, “per proteggerlo”. È come se l’atto della caccia fosse più importante di quello di catturare la preda, che una volta sbranata non ti lascia nulla se non un vago retrogusto di carne marcia.

Il mondo dello sport è pieno di atleti appagati che hanno abbassato il livello delle loro prestazioni proporzionalmente alla crescita della loro fama. E il mondo del cinema è pieno di attori che hanno trovato la formula vincente e si sono auto-brandizzati, ripetendo all’infinito le stesse scene e asciugando i piatti con banconote da cento dollari. Rocky III sembra quasi un modo per Stallone di mettere in guardia sé stesso: “ecco cosa rischi ora che sei arrivato”, si dice. “Goditi le statue, gli autografi e le fan che vogliono un bacio, ma non dimenticarti di chi eri”.

Alcogan

A onor del vero va detto che in Rocky III Stallone non spinge del tutto il suo personaggio lungo la strada della perdizione: Rocky rimane sempre un generoso, che fa tanta beneficenza e non si scorda mai da dove è venuto. Quello che gli manca è la fame, gli oggi tristemente proverbiali “occhi della tigre”: in questo senso, il fatto che Rambo sia uscito nello stesso anno sembra quasi un’auto-risposta dello stesso Stallone (che però poco dopo finirà a dirigere il sequel di La febbre del sabato sera, prima di tornare a più miti consigli). Il Rocky di Rocky III è un guscio svuotato di quello che lo aveva reso un campione, anche se non per forza un vincente. È il fantasma dei Natali futuri che viene a visitare Stallone dalla copertina di un magazine patinato. Non è un caso che persino la prima “sconfitta” di Rocky arrivi non per mano di un altro pugile, ma di un wrestler, cioè uno che fa uno sport nel quale la componente spettacolare e scriptata conta quanto quella puramente atletica.

L’unico modo per far uscire il personaggio dal tunnel nel quale il destino lo ha inevitabilmente cacciato è fargli tornare la fame; e in questo Rocky III può vantare quello che forse è il più interessante degli avversari di Balboa, più interessante del protagonista stesso. Il Clubber Lang di Mr. T è tutto quello che Rocky era all’inizio del primo film, ma con in più la rabbia di quello che è arrivato secondo e sente di avere diritto alla sua occasione. È lui questa volta che si allena prendendo a pugni oggetti improbabili, non Rocky. È la voce dei poveri e degli sconfitti che si alza, incazzata nera, per ricordare a Rocky che anche lui una volta faceva parte del coro.

Trocky

È anche un personaggio scorrettissimo, volgare, insopportabile, anche eccessivo e caricaturale (senza però mai diventare comico). Il contrasto con il Rocky in giacca e cravatta è evidente, ma Rocky III ci chiede anche: davvero Lang è così peggio di Rocky? La scena nel parcheggio, nella quale Paulie prova a spiegare al cognato cosa ci sia che non vada nella sua carriera solo per venire respinto e umiliato da Rocky, è una delle più violente dell’intero franchise nonostante si concluda in una scazzottata-farsa; e colpisce soprattutto perché inaspettata, inutilmente crudele per gli standard di un duro dal cuore d’oro come Balboa.

Rocky III è quindi una storia di decostruzione e ricostruzione: Rocky perde non una ma due volte (perché il combattimento contro Labbra Tonanti è quantomeno una sconfitta morale), tocca il fondo con la morte del suo mentore, si trova di fronte un tizio che lo vuole morto non perché sia cattivo ma perché si sente tradito, da lui e dal suo successo. È il più eccessivo della, chiamiamola così, trilogia originale, molto lontano dalle atmosfere asciutte del primo film, con combattimenti sempre meno realistici e sempre più spettacolari. È insomma quello che doveva succedere a Rocky per continuare a mantenere il suo status di alter ego di Sylvester Stallone.

Rocky III Mr T

E a proposito di restare umili e ritrovare la fame: tra una settimana vi raccontiamo di quella volta che Rocky Balboa ha risolto la Guerra Fredda a pugni.

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