Streghe del Nord Italia e fantasmi siciliani: viaggio nel folk horror italiano, da Nord a Sud dello stivale in occasione dell’uscita di A Classic Horror Story

A Classic Horror Story, il “film di paura” di Roberto De Feo e Paolo Strippoli in arrivo su Netflix il prossimo 14 luglio, ha anche a che fare con un viaggio attraverso l’Italia, un viaggio che ha, come destinazione, il Sud dello stivale.

Ma non il sud turistico delle spiagge da sogno, dei siti archeloigici invidiati da tutto il mondo, delle splendide e gustose pietanze della tradizione gastronomica locale. Quello di A Classic Horror Story è il Sud più tetro e oscuro della leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Nella prima parte della nostra lunga chiacchierata con Fabio Camilletti, professore associato di letteratura italiana presso l’Università di Warwick in Inghilterra, sì è parlato del tortuoso percorso del folk horror in Italia (la trovate linkata qua sopra). In questa seconda parte, abbiamo espressamente chiesto al professore di elencarci qualche storia folklorica che, in un inquietante viaggio dal dal nord al sud dello stivale, sarebbe perfetta per essere raccontata da un film o da una serie tv.

 

a classic horror story

 

La Selvana del Mas Fosal

Ho selezionato un po’ di storie da alcuni libri che ho amato particolarmente. La prima viene da un testo della fine degli anni settanta, Storie di Magia, di Bruna dal Lago, bolzanina, quindi partiamo dall’estremo nord. Un libro che risente molto del clima di quel periodo, dai dischi di Branduardi e tutta la controcultura del tempo mescolando molto autoriflessione e reinterpretazione libera del folklore delle valli ladine, di quelle zone fra Trentino e Alto Adige in cui si parla questa lingua minoritaria, il Ladino appunto. Una lingua neolatina che è sopravvissuta nel corso dei secoli in modo indipendente sia dall’italiano che dal tedesco ed è oggi oggetto di studio, recupero e valorizzazione. In questo libro l’autrice parla della Selvana del Mas Fosal ed è una variante della storia di Melusina. Parla di un contadino della Val di Fassa che si innamora di una donna del mondo altro, di una Selvana, un’abitante dei boschi, nel mondo anglosassone parleremmo tranquillamente di fata, in quello antico di ninfa o driade. Quest’uomo riesce a portarla nel suo mondo, a sposarla e ad avere dei figli fino a che lei non viene richiamata nel suo mondo. L’ho scelta innanzitutto perché è una variante di un mito europeo fatto in un contesto peculiare come quello delle valli Ladine, ma poi perché il consiglio che il contadino riceve sul come fare per attirare a sé questa donna dei boschi gli viene da una strega per cui però Bruna dal Lago usa il termine comunemente usato in ladino, Bregostana. Cosa significa questa parola? Secondo alcuni è una corruzione di Pre Augustana, cioè qualcuno che precede l’arrivo di Augusto, in senso lato di Roma. Qualcosa che precede la colonizzazione da parte dei romani delle valli Alpine. L’aspetto interessante di questa storia è che mette in contrapposizione un umano, uno che il Landolfi della Pietra Lunare avrebbe definito come uno dei “solari”, con questo popolo pre-augustano che vive nei boschi, che pratica le arti magiche e vive in un mondo altro desiderando di essere lasciato in pace. Ciò altro non è se non una rappresentazione del conflitto antropologico e coloniale che, in epoche ormai remote, c’è stato fra l’influsso di Roma e le popolazioni pre-romane che si è mantenuto, nel folklore, come l’idea di questo popolo a parte, lunare, che vive nei boschi e nelle selve e non ha nulla a che fare con il mondo regolamentato delle città. Lo definirei come un cardine del folkhorror italiano: dove arriva Roma, c’è questo ricordo anche in qualche maniera infestante delle popolazioni soggiogate se non addirittura annientate o assimilate dalla cultura romana giungendo fino a noi come un rimosso. Nel mio nuovo libro se ne parla proprio in una sezione dal titolo “A lezione dagli Antichi” perché queste memorie assumono spesso e volentieri dei toni lovecraftiani. I Culti delle campagne, quella cultura che Roma raschia ma non cancella, culture rurali fatte anche di sacrifici umani. Lo diceva anche Cesare Pavese no? Tutte le culture contadine hanno fatto dei sacrifici umani e tutte le culture umane sono state contadine. Sostanzialmente l’Italia è un’immensa necropoli di popoli che non hanno scritto nulla, non hanno lasciato testimonianza del loro passaggio e che conosciamo solo attraverso la lingua degli invasori, la cui memoria continua però a vivere in maniera obliqua. Torniamo a Giorgio Bassani e al Giardino dei Finzi-Contini che parte dalle necropoli etrusche di Tarquinia e Cerveteri nel prologo del romanzo, dalle città dei morti ai Finzi-Contini che poi non hanno nemmeno una tomba. Poi tutti gli anni settanta sono attraversati da questa memoria infestante degli Etruschi a partire da film come L’Etrusco uccide ancora o una serie come Ritratto di donna velata.

Gli spiriti di Aci Platani

Il secondo è un libro la cui prima edizione è del 1957 e poi viene ripubblicato durante il revival dell’occulto negli anni sessanta, le Leggende del diavolo a cura di Vittorio di Giacomo. Sono storie sul diavolo a 360° che arrivano da tutte le parti della penisola e, con questa, ci spostiamo dall’estremo Nord all’estremo Sud della penisola, in Sicilia. È una serie di cronache sugli spiriti di Aci Platani che è una frazione di Acireale. È una tipica storia di case infestate siciliane, storie che sono presenti in tutta Italia e di cui ognuno di noi ha sicuramente memoria perché in ogni città, in ogni paese c’era qualche casa con una dubbia fama, sono spesso collegate all’area del contado, quelle zone liminali dove la città, o la cittadina, sfuma nella campagna che non sono abitate da lungo tempo e acquistano questa fama strana. Questa casa di Aci Platani, con la descrizione dei fenomeni che sono accaduti, è come un campione, un paradigma di quello che si racconta su altre case. Una donna racconta di aver veduto presso la casa un montone che sparì prima di averlo potuto accostare, avvistamenti notturni di ceri accesi su altari accompagnati da rumori inquietanti, chi diceva di aver visto un uomo col berretto rosso e una pietra in bocca sparito improvvisamente eccetera eccetera. Aneddoti che, in sé, non hanno neanche nulla di terribile ma che nel contesto lo diventano. Se vogliamo spostarci nelle nostre Marche c’è un libretto molto interessante scritto da uno storico locale, Raul Paciaroni, relativo a una casa di San Severino Marche dove – un’ottantina di anni fa – si verificarono fenomeni di poltergeist ripresi anche dalla stampa locale. Ed è tutto rimasto nella memoria locale in quanto casa degli spiriti anche se, letteralmente, è solo uno degli innumerevoli esempi che si possono fare. Sono quelle che Richard Matheson chiamava “case d’inferno”, fino ad arrivare a Plinio il Giovane col suo racconto di questa casa marcia. Ho scelto un esempio siciliano, ma, davvero, potevamo andare dappertutto, sono storie condivise, come del resto quella delle bregostane o degli etruschi.

 

a classic horror story al taormina film fest

 

Il ballo dei morti del Mugello

Terzo. Questo è Il libro delle veglie pubblicato negli anni ottanta da Carlo Lapucci, un folklorista toscano che, negli anni, ha raccolto tante storie in tutta un’affascinante serie di testi che ricostruiscono la storia popolare non solo nei termini di folk, ma anche in quelli di tutta quella cultura che veniva raccontata e condivisa fino all’altro ieri, delle storie che fornivano un patrimonio comune delle narrazioni come, ad esempio, quella delle veglie appunto. Cos’erano le veglie? Le veglie erano quelle notti che venivano trascorse nelle case rurali all’interno della stalla perché la presenza degli animali garantiva un calore costante visto che non era possibile tenere acceso il fuoco tutta la notte. Si stava il più possibile svegli nelle stalle e qualcuno, come le donne del contado o addirittura dei cantastorie di professione, raccontava queste storie magari divertenti nella prima parte della serata e poi, quando i bambini erano andati a dormire, si passava a quelle un po’ più spaventose che prendevano il nome di “paure”. Si raccontavano “le paure”, un termine diffuso un po’ in tutta l’Italia centrale. Paura è anche il termine che indica, dappertutto, l’apparizione diabolica e spettrale, quindi da questo punto di vista abbiamo una parola che identifica sia la narrazione che l’oggetto della stessa. Interessante come concetto no? Tu fai paura raccontando della paura. Il far paura che diventa oggetto e soggetto. Queste storie qua raccolte da Lapucci rappresentano quasi il grado zero del terrore. In casi come questi, ricordo sempre quello che dice Stephen King in Danse Macabre: “Ogni storia dell’orrore, in ultima analisi, è sempre la storia dell’uncino”. La storia che si raccontano i ragazzini intorno al fuoco durante il campeggio, quella della coppia che si apparta per amoreggiare in macchina, sanno che un serial killer che è solito uccidere con un uncino è uscito di prigione, lei ha paura perché sentono un rumore, lui minimizza e poi, quando vanno via, si accorgono, una volta rientrati, che c’è un uncino piantato sulla maniglia della vettura. Spiega che possiamo fare tutti i viaggi che vogliamo, arrivare al Giro di vite di Henry James ma poi, in ultima analisi, si riduce tutto all’uncino, a storie elaborate per spaventare a morte le persone dopo che il sole è calato. Di questi racconti qua, ce n’è uno che trovo particolarmente interessante che s’intitola Il ballo dei morti e che è stato raccolto al Mugello, quindi parliamo della Toscana. C’è un fornaio, con la moglie malata, che, una notte, passando in un’area del bosco che i taglialegna chiamavano “l’ombelico della selva” – che come spiega Lapucci era in genere il punto più umido, nascosto dalla vegetazione che nascondeva questa conca umida e paludosa – vede una cappelletta in rovina con diversa gente radunata nei paraggi. Però c’è qualcosa di molto strano. Qualcosa di strano che ricorda certe sequenze oniriche dei film di Pupi Avati. “Un vecchio annaspava sopra la tastiera di un organetto che non mandava nessun suono, alcune coppie ballavano una danza rusticana mentre in cima al piccolo campanile oscillava una campana dalla quale non proveniva suono alcuno”. Queste persone fanno delle cose, ma non si sentono suoni. Ballano, fanno musica immersi in un silenzio innaturale. C’erano delle donne che portavano secchi d’acqua fangosa e la versavano nei bicchieri che tutti bevevano come se si fosse trattato di ottimo vino. Il fornaio a un certo punto riconosce che queste persone erano tutte morte. C’era la sua vecchia balia deceduta ormai da anni, un amico caduto da cavallo ancora giovane, il fattore ucciso da una fucilata in un incidente di caccia, Mara, il suo primo amore morto di parto a 23 anni e tanti altri conosciuti o che gli pareva di conoscere. In mezzo a quelle persone vede anche sua moglie che non è ancora morta ma sta partecipando anch’ella al ballo dei morti. Di lì a poco la donna morirà. Cosa c’è d’interessante in questa storia? La prima e più fondamentale è che questo mondo di morti completamente acristiano. È un aldilà che non ha nulla dell’Inferno o del Paradiso, qualcosa in più del Purgatorio se vogliamo, ma un Purgatorio folklorico, non quello dottrinale. È un aldilà pagano, dove c’è questo particolare dei morti che si cibano di fango come se fosse vino citato anche in un versetto dell’epopea di Gilgameš. “Coloro che abitano le dimore dei morti hanno ali d’uccello e si cibano di fango”. Da questo possiamo comprendere una cosa: il terreno della penisola italiana è il confronto fra due modelli antitetici della morte e dei morti. Da un lato quello della tradizione cristiana dove tutti sono collocati all’Inferno, nel Paradiso o Purgatorio, poi ci sono questi “morti dei poveri” della tradizione contadina i quali non sono sistemabili in nessuno di questi luoghi e restano in questo Ade, in questa penombra che è un aldilà terribile che non offre alcuna possibilità di salvazione, che sopravvive nel folklore italiano ricomparendo di tanto in tanto con una violenza perturbante anche in tradizioni più recenti. Menzionavo prima Pupi Avati, pensiamo a un’opera come Le strelle nel fosso oppure a romanzi come Le stelle fredde o al film mai realizzato da Fellini Il viaggio di Mastorna, questo viaggio in un aldilà grottesco, ma che questo è, questo Ade penombrale. È una cosa che, in una qualche maniera, ci è sempre in qualche modo contigua.

La ragazza dello Snoopy

La quarta e ultima è una versione raccolta nella Val Brembana, in Lombardia. Ma in realtà, nel momento in cui la sentirete, realizzerete quasi sicuramente di conoscerla già. Questa è stata registrata il 17 settembre del 1997 a Bergamo, testimonianza orale di Gloria G. studentessa di 17 anni, nata e residente in Val Brembana. “Io avevo sentito dire che c’era una ragazza che si diceva che era morta. Era al cimitero di Zogno. Una sera c’erano molti ragazzi in discoteca, lei era in discoteca che ballava normalmente quando ha incontrato un ragazzo che le ha chiesto se voleva un passaggio, mi pare che lei era di San Giovanni e quando lui l’ha lasciata a casa lei aveva dimenticato la borsetta sul sedile dell’auto. Si era voluta far lasciare nei pressi del cimitero. Il ragazzo non si era accorto subito della borsetta ed era andato a casa. Il giorno dopo salendo in macchina la trova, controlla la carta d’identità, c’era scritta la via e va a casa della ragazza per riportare la borsetta. Ed è a quel punto che la madre gli ha detto che era morta da tantissimi anni”. Questo libro s’intitola “La ragazza dello Snoopy, la leggenda contemporanea dell’autostoppista fantasma. Una ricerca in Valle Brembana”.

Ecco, io ad esempio conoscevo la nostra variante di zona di questa storia ed era ambientata a Campocavallo di Osimo. E sai, riflettendo a posteriori, ho realizzato che si trattava della strada che arrivava a Porto Recanati (nota località balneare delle Marche, ndr.), zona di discoteche e balere. Inevitabilmente, l’aspetto interessante della vicenda è che resta sempre grossomodo analoga nella struttura di base che poi, di volta in volta, viene calata nei vari contesti. I ragazzi della Val Brembana l’ambientano allo Snoopy che è una discoteca di quelle parti. Quella che conoscevo io derivava, con tutta probabilità, dagli anni settanta e aveva a che fare con una strada che veniva percorsa per andare al mare. Se andiamo a guardare i cicli di questa storia conosciuta letteralmente in ogni epoca… una delle prime versioni è ambientata a Torre del Greco negli anni ’50 e aveva a che fare con un passaggio dato da un motociclista e c’era sempre l’elemento della sala da ballo perché erano gli anni in cui cominciava a diffondersi l’hobby del ballo, nella versione della Val Brembana avevamo a che fare con gli anni novanta e il tema delle morti del sabato sera. C’è un collegamento a un certo tipo di natura mortifera. Ma ne esiste una versione del 1948 ambientata a Il soldato e la ragazza FantasmaPalermo: un soldato andava a un ballo e incontra una ragazza molto bella, vestita di bianco. L’accompagna a casa nei pressi del cimitero, le presta il cappotto e poi il giorno dopo lo ritrova sulla tomba. Letteralmente: è una storia presente in ogni angolo d’Italia. E ti dirò di più: del mondo. La prima identificazione di questa storia come elemento di folklore è dei primi anni quaranta da parte di due antropologi statunitensi che, inizialmente, la considerano una leggenda americana per poi scoprire che in realtà era diffusa a livello planetario. Ma le sue origini sono addirittura più antiche: parliamo dei primi secoli dopo Cristo. Sono abbastanza sicuro che una delle prime annotazioni sia quella nel Libro dei Prodigi scritto da Flegonte di Tralles nel II DC. Era un liberto dell’Imperatore Adriano che registra questa storia accaduta ad Anfipoli riscoperta poi alla fine del 1500 da un manoscritto trovato a Costantinopoli che parlava di un giovane il quale aveva trascorso tre notti con questa ragazza senza sapere che era morta. Per ovvie ragioni non c’era di mezzo una macchina ma c’era sempre l’idea, che è poi la morale alla base di questa storia, che è meglio evitare la promiscuità con gli sconosciuti. E non è neanche un caso che venga poi riscoperta nel 1500 e nei trattati di demonologia del primo 1600, nell’epoca in cui si cominciava a diffondere la sifilide nell’Occidente. Per poi venir reiterata nel ventesimo secolo nell’epoca degli incidenti stradali, dell’AIDS negli anni ottanta. Negli anni dei rischi a cui andava incontro il cosiddetto “popolo della notte”, argomento principe dei talk show degli anni novanta. Una cosa molto curiosa da dire a proposito del libro da cui parte il tutto, scritto da una insegnante con una formazione antropologica, è che secondo lei il motivo per cui questa storia folklorica si era riattivata negli anni novanta ed era raccontata, a giro, dai ragazzini della Valle era stata la riproposizione televisiva in forma di replica del quarto episodio di Professione Vacanze con Jerry Calà, nel quale compare una sposa cadavere in piena regola. Che fa l’autostop. È un episodio molto più complesso di quello che appare in superficie.

La sinossi ufficiale di A Classic Horror Story:

Cinque carpooler viaggiano a bordo di un camper per raggiungere una destinazione comune. Cala la notte e per evitare la carcassa di un animale si schiantano contro un albero. Quando riprendono i sensi si ritrovano in mezzo al nulla. La strada che stavano percorrendo è scomparsa; ora c’è solo un bosco fitto e impenetrabile e una casa di legno in mezzo ad una radura. Scopriranno presto che è la dimora di un culto innominabile. Come sono arrivati lì? Cosa è successo veramente dopo l’incidente? Chi sono le creature mascherate raffigurate sui dipinti nella casa? Potranno fidarsi l’uno dell’altro per cercare di uscire dall’incubo in cui sono rimasti intrappolati?

Girato in Puglia e a Roma e prodotto da Colorado film, A Classic Horror Story è “una classica storia dell’orrore”, come suggerisce il titolo: un omaggio alla tradizione di genere italiana che, partendo da riferimenti classici, arriva a creare qualcosa di completamente nuovo.

A Classic Horror Story è diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli e uscirà su Netflix il 14 luglio.

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