Sembra passato molto più tempo dei 10 anni trascorsi dopo l’arrivo di The Amazing Spider-Man. È strano, perché normalmente i film che invecchiano restando popolari nei discorsi dei fan, macinano gli anni come una macchina del tempo. Nel 2022 ad esempio festeggeremo i 10 anni di Prometheus. “Di già!”

E invece per The Amazing Spider-Man la risposta è: “solo?”. Perché nel frattempo è successo di tutto, l’Uomo Ragno si è rilanciato, è entrato negli Avengers, ha visto altri tre film in solitaria senza contare le comparsate in quelli collettivi e l’Oscar vinto per Spider-Man: Un nuovo universo. Poi il fenomeno Venom, quello Morbius e l’attesa spasmodica (si fa per dire) per El Muerto. Le risate per un progetto cinematografico senza senso, e le lacrime per il momento emotivo per eccellenza con Spider-Man: No Way Home.

Proprio grazie alla chiusura della (prima?) trilogia targata Marvel Studios con Tom Holland, il progetto Sony, deragliato al secondo Amazing, si è riscattato in un modo stranissimo. Ci si è accorti che della storia non è rimasto niente, nulla di memorabile che merita di essere salvato. Però Andrew Garfield è stato un ottimo Peter Parker e, bene o male, ce ne siamo tutti affezionati.

Poteva essere solo l’ingresso ad effetto dal portale di Ned. Lo shock del colpo di scena. Invece per tutto il tempo in cui resta in scena si comporta da protagonista, è sua la storia che entra di più in quella dell’MCU. Ben più di quella di Tobey Maguire (nonostante i villain siano i suoi). Il primo Peter è più discreto, un fratello grande che supervisiona tutto sapendo già come andrà a finire. Ha più esperienza, è già arrivato all’equilibrio tanto difficile da trovare tra l’uomo e il supereroe.

Invece lo Spider-Man “Amazing” ha ancora tanto da raccontare. Non ha trovato la pace e, anzi, la sfiora proprio in quest’ultimo film salvando Mary Jane e commuovendosi. Una scena incredibile. Il problema quindi è stato nel progetto, non negli attori e nemmeno nel personaggio in sé.

Cosa è andato storto con il progetto di Marc Webb? 

Il personaggio di Andrew Garfield funziona in No Way Home molto più di quanto lo faccia nei suoi film perché  è gestito con un approccio minimale e slegato dal mito. Un po’ come ha fatto Sam Raimi con la sua trilogia, abbassando tutto a un livello terreno, cercando un eroe semplice che potrebbe essere il compagno di scuola di chiunque. Questo non significa che manchino le scene madri o i momenti memorabili, però non sono loro ad essere utilizzate per farci empatizzare con l’eroe. Lo sono semmai i drammi, le perdite a cui deve trovare una ragione (zio Ben prima e Gwen Stacy poi). 

È qui che spicca questo Amazing Spider-Man: come quello che ha sofferto di più dei tre, e quindi colui che ha avuto il percorso più difficile per diventare un eroe completo. È questo che va salvato, e la Marvel l’ha capito.

Solo che Marc Webb ha diretto i due Amazing con la voglia di far diventare Spider-Man il supereroe più cool. Così ha creato un giovane ragazzo morso da un ragno che assomiglia di più a un “eletto” grazie a una cospirazione, con la famiglia ricca e un po’ viziato, che ad un qualsiasi vicino di casa. All’interno della sua storia famigliare c’è una tradizione di successi e di persone che operano su una dimensione più avanzata rispetto al resto del mondo. Ci guardano dall’alto al basso, sapendo cose non accessibili al popolo. I due genitori in particolare, che qui sono presentissimi pur nella loro assenza fisica, hanno impostato con le loro azioni tutto il futuro di Peter.

Invece a Spider-Man si vuole bene perché è esattamente il contrario. È un ragazzo (ma può essere anche una ragazza) come tutti. Ha una spiccata intelligenza, certo, compensata però dagli scarsi mezzi e da un senso di inadeguatezza che lo schiaccia. Ha le ali tarpate, non la strada spianata.

Andrew Garfield Spider-Man

I genitori in Amazing Spider-Man 

Ad intervalli regolari nei fumetti si cerca di rimescolare il passato, di riscrivere un po’ la storia dando un senso al casuale morso del ragno. Però nessuna di queste idee è mai andata veramente a segno rinnovando a lungo le coordinate narrative. Bene o male si torna sempre al supereroe con superproblemi e il resto passa in secondo piano. Si torna a scrivere di colui che si ritrova baciato da quello che crede un colpo di fortuna e che invece è una prova per la sua tenuta morale. Avrà la forza per fare sempre la cosa giusta per gli altri anche a costo di rinunciare al bene per sé?

Al centro di questo dilemma ci sono le figure genitoriali. Zia May e zio Ben come mamma e papà, nella loro assenza. Così Peter ha sempre un vuoto dentro: la massima sul potere e sulle responsabilità fonda l’Uomo Ragno, ma il pavido Parker resta bisognoso di consigli e di rassicurazioni.

In The Amazing Spider-Man c’è un eccesso di personaggi e di figure genitoriali. Mamma, papà, zio, zia, il Capitano Stacy e in parte anche Curt Connors. In automatico l’eroe diventa come un groviera, pieno di buchi nel passato, di ansie da risolvere. Poche però arrivano sullo schermo in maniera convincente. Perché restano sulla carta e raramente si vedono nella sua personalità: Peter è un genietto, bellissimo, conquista le ragazze senza difficoltà, ha dei poteri divertentissimi ed è chiamato alla grandezza sin dalla più tenera età. Anzi, i problemi del passato gli facilitano il futuro.

Spider-Man è l’eroe singolo più collettivo che ci sia

In realtà in The Amazing Spider-Man c’è una scena grandiosa e riguarda il supereroe, non l’uomo. Lui, ferito, è su un tetto e deve raggiungere Lizard. L’intera città muove le gru per permettergli di salvarla. Come se Manhattan si allineasse e diventasse un alleato del “suo” Spider-Man che da solo non ce l’avrebbe mai fatta. Un po’ come la scena del treno per Sam Raimi o quella in cui il popolo che ancora piange l’11 settembre si ribella contro il terrorista Goblin. 

Tom Holland ci ha messo tre film per diventare un vigilante solitario e maturo. Ha sempre avuto bisogno di amici e mentori (Stark, Beck, Fury, Dock Ock). Andrew Garfield fa tanto da solo, troppo. 

Marc Webb ha spinto al massimo sul bello di essere l’Uomo Ragno, ha ricreato con cura l’azione, l’ha resa immersiva per far provare l’esperienza di essere come lui (chi si ricorda il primo teaser in soggettiva?). Si è dimenticato però usare l’immedesimazione anche per Peter Parker. La parte meno scintillante, quella che si crede non faccia vendere i biglietti, e che invece è il contrappunto più affascinante e la vera ragione di esistenza di quello specifico Spider-Man. No Way Home ha dimostrato che non è il costume ma è il ragazzo che lo indossa a fare la differenza. 

Confondere la storia con il personaggio

Così The Amazing Spider-Man è invecchiato in un attimo, anche se voleva essere il film del futuro. È accaduto per colpa di queste scelte di sceneggiatura. Nel momento preciso in cui si è pensato che per rendere spettacolare l’eroe si dovesse scriverlo sicuro di sé e sbruffone e quando si è confuso Peter Parker con la sua storia.

Quello che immaginava Stan Lee non era un adolescente a cui i lettori di fumetti avrebbero voluto aspirare ma in cui si sarebbero potuti riconoscere. Così ogni volta che si sapeva qualcosa di più del suo passato, questo andava ad aumentare l’idea di eventi che travolgono casualmente il protagonista, che viene chiamato dal destino (o da una cospirazione) ad agire anche senza volerlo fare.

Non sono i misteri a tenerci incollati a un franchise, ma i personaggi. Non c’era bisogno quindi di tutta quella ingombrante sottotrama delle origini legata ai genitori, così assurda e girata tutta a petto in fuori e testa alta (c’è uno scarto abissale tra le intenzioni e la riuscita). 

Sono bastati una quindicina di minuti in No Way Home a far capire quello che avrebbe potuto dare. Senza il tempo di complicate cospirazioni, Peter Parker di Andrew Garfield è diventato il più umano di tutti. Uno che ha incontrato il dolore e che ci combatte quotidianamente. Lo accetta come parte della vita e fa in modo che tutto questo lo renda migliore.

È logico quindi che si voglia ancora un The Amazing Spider-Man 3. perché non tutto è da buttare dei due film che l’hanno preceduto, e quello che rimane è un rapporto stroncato troppo presto (quello con Gwen Stacy) e un punto ottimale in cui è stato lasciato. Siamo partiti con un ragazzo che sembrava avere perso tutto e a cui invece non mancava niente. Poco prima della scena di chiusura de Il potere di Electro, mentre guarda le tombe del cimitero, è invece un uomo che aveva tanto e ha perso tutto, senza più trionfi, solo con le sue sconfitte. E allora può iniziare a esistere anche come un vero supereroe Marvel: cioè uno che diventa leggendario quando viene schiacciato.

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