The Hateful Eight di Quentin Tarantino è ora disponibile su Amazon Prime Video

“Vi racconto una storia”, “Raccontami una storia!”: frasi di questo genere sono assai frequenti nei film di Quentin Tarantino, enunciate nei contesti più disparati. Non sarà certo un caso allora che il titolo del suo più recente lavoro richiami esplicitamente una dimensione fiabesca, rappresentando il naturale approdo per un autore che ha sovente messo al centro delle sue opere il piacere, l’affabulazione del racconto, che coinvolge noi spettatori tanto quanto i personaggi in scena. In quest’orizzonte, un suo film è in particolare molto significativo, in quanto guarda sia al passato, sia al presente della sua filmografia: The Hateful Eight, uscito nel 2015 e ora disponibile su Amazon Prime Video.

Il potere della parola

La vicenda è nota: The Hateful Eight sarebbe potuto anche non arrivare mai su grande schermo. Dopo che la sceneggiatura era trapelata online, Tarantino aveva dichiarato di voler rinunciare al film, optando per trasformarlo in un romanzo. Successivamente, aveva organizzato una live reading del copione con alcuni attori e poi, solo dopo averne modificato il finale, si decide a trasformarlo nel lungometraggio che tutti conosciamo.

Questa natura ibrida del progetto ne evidenzia così il tratto principale: la dimensione teatrale, il far leva sul potere della parola. Il film si svolge interamente in due angusti luoghi chiusi, e (idealmente) separati dal resto del mondo. La diligenza, dove all’inizio viaggiano il Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson) e John Ruth (Kurt Russell), entrambi cacciatori di taglie, insieme a Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), latitante che il secondo sta portando a Red Rock per farla giustiziare. E poi l’emporio di Minnie, dove, in seguito alla bufera di neve che sta imperversando, i tre, più Chris Mannix (Walton Goggins), fuorilegge divenuto a suo dire sindaco della cittadina, trovano riparo e incontrano altri personaggi, con i quali sono costretti così a convivere nell’attesa che il tempo migliori.

 

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Entrando in scena, tutti i personaggi presentano se stessi o fanno le veci per qualcun altro (come Ruth per Daisy) con lunghi discorsi, pieni di dettagli e minuzie con cui spiegare cosa li ha portati lì. Non potendo uscire dall’emporio, lasciano che a volare altrove sia la mente di chi li ascolta, spinto a immaginarsi cosa non può vedere e allo stesso tempo a metterne in dubbio la veridicità. Come i personaggi, anche noi spettatori siamo spinti a fare ciò, in quanto non abbiamo modo di sapere più di quanto loro stessi dicono: nel film non sono mai inseriti flashback dei loro racconti, tranne in un caso su cui torneremo dopo.

Tarantino del resto ha sempre mostrato grande abilità nel mettere in scena elaborati discorsi capaci di evocare vivide immagini mentali: in luoghi chiusi, come in Pulp Fiction, quando Jules racconta a Vince dentro l’ascensore come Marcellus abbia punito il tirapiedi per aver osato fare un massaggio ai piedi alla moglie. Così come negli spazi aperti: in Django Unchained Schulz, in occasione di una sosta nel deserto, racconta la leggenda di Broomhillda al protagonista, subito catturato dalle sue parole. In The Hateful Eight, l’affabulazione può essere tanto ingannatrice quanto salvifica: a tavola, Warren ammette come la lettera di Lincoln che porta sempre con sé sia solo un falso utile a “disarmare l’uomo bianco” e ingannarlo, come è successo con Ruth, che solo vedendola fisicamente si è convinto a farlo salire sulla diligenza.

Ma la passione per il racconto è qualcosa che richiama soprattutto il primo film del regista, Le iene, dove ritorna anche l’ambientazione in un luogo chiuso. La storia narra di otto rapinatori, che, dopo una rapina andata a male, si ritrovano in un deposito per scoprire chi di loro è la spia che gli ha traditi. In questa location, i personaggi non fanno altro che parlare di cose futili e inutili in lunghe scene di conversazione che arrestano il flusso del racconto. Come quella d’apertura, in cui i protagonisti discorrono sul significato di Like Vergin di Madonna, o quelle nell’auto di Eddie, dove l’argomento sono le differenze tra donne bianche e nere. Sono appunto delle digressioni, che richiamano la destrutturazione narrativa del film stesso: tanto è disteso in queste scene, tanto l’episodio chiave, la rapina, non ci viene mai mostrata, e gli altri momenti salienti sono sempre relegati a veloci sequenze, come analizza Giaime Alonge nel volume Il cinema americano contemporaneo.

Anche The Hateful Eight si sviluppa per lungo tempo girando esclusivamente sugli scambi dei personaggi, che però non sono mai qui fini a se stessi. A pochi anni dalla fine della Guerra Civile Americana, le sue ripercussioni riaffiorano più volte nei discorsi dei protagonisti, che affrontano spesso questioni importanti. “Fermo dove sei, nero” dice Ruth a Warren e poi, parlando di Daisy, “Non è l’assassino di Abraham Lincoln, ma magari hai sentito parlare di quanto vale la sua testa”. Appena entrati nella locanda, Oswaldo “Ozzy” Mobray (Tim Roth) espone la sua concezione di giustizia, delineando la differenza tra il boia (espressioni della civiltà) e la vendetta dei parenti della vittima, espressione della frontiera.

C’è inoltre un altro punto di contatto tra Le iene e The Hateful Eight: un esplicito movimento di macchina circolare proposto in punto cruciale della storia. Nel primo film è all’inizio, durante la citata discussione su Like a Vergin, come impostazione del tono ondivago di tutto l’intreccio. Nel secondo, invece, il movimento circolare arriva dopo ben 70 minuti, quando Warren, Ruth, Daisy e il cocchiere si riuniscono e Ruth condivide il suo sospetto che qualcuno è in combutta con la donna. Questo passaggio serve dunque a innescare il “giallo” che su cui poi verterà il resto delle vicende, ma ancora una volta, la detection procede a rilento: dopo la scena, si susseguono ancora i fitti dialoghi tra i personaggi, in cui emergono le loro diverse posizioni ideologiche, tra odi per le donne e gli afroamericani. Per far riaccendere l’intreccio deve intervenire la voce narrante (nella versione originale, dello stesso Tarantino!) mostrandoci qualcosa che sfugge alla vista dei personaggi, uno tra di loro che avvelena il caffè. Una presa di posizione così esplicita che rende chiaro come qui il piacere del racconto a cui il regista ci aveva abituati deve sempre fare i conti con la Storia.

Il peso della Storia

The Hateful Eight si colloca nel bel mezzo di tre opere di Tarantino, ovvero Bastardi senza gloria, Django Unchained e C’era una volta a Hollywood, che compongono la cosiddetta trilogia del “revisionismo storico”. Queste sono infatti accumunate dal un finale che riscrive la Storia ufficiale: Hitler muore in un Cinema, lo schiavo nero uccide il feroce latifondista, Sharon Tate si salva dai seguaci di Charles Manson. In The Hateful Eight c’è solo una scena in cui i “classici” ruoli di dominazione sono ribaltati, e non a caso è relativa all’unico racconto che vediamo in flashback. L’afroamericano Warren narra al Generale Sanford Smithers (Bruce Dern), chiamandolo “bastardo assassino dei neri”, di come suo figlio avesse cercato di ucciderlo dopo la guerra per incassarne la taglia, subendo però la sua ritorsione, che lo aveva fatto spogliare e costretto a camminare nella gelida neve prima di togliergli spietatamente la vita. La diversità della scena nell’economia narrativa ne sottolinea l’importanza. O forse, in un film dove menzogna e verità non sono mai così nettamente distinguibili, è una bugia così ben architettata da diventare realtà.

 

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Ma, poi, nello scioglimento, non c’è spazio per alcuna redenzione, alcun riscatto: il bagno di sangue colpisce tutti i personaggi. La visione che affiora sotto i toni grotteschi dell’intreccio è dunque cupissima, disincantata. Il microcosmo della locanda è infatti lo specchio di un’intera società americana, colta in un passaggio fondamentale della propria Storia. Lo esplicita il personaggio di Tim Roth, quando propone di divide l’emporio a metà, tra Nord e Sud, associando ad ogni spazio uno Stato. Anche prima però, la dinamica della diligenza non era affatto casuale, richiamando un classico del cinema western americano, Ombre rosse. Il film di John Ford, uscito nel 1939, racconta del viaggio di una diligenza minacciata dagli Indiani nello sfondo della Monument Valley, in cui i viaggiatori all’interno sono portatori di valori differenti. Durante il tragitto, però, quelli a prima vista integri (come il banchiere) si riveleranno immorali; quelli etichettati dalla società come deprecabili (il fuorilegge Dallas, interpretato da John Wayne, e la prostituta) guidati da sani principi. Anche nella diligenza del film di Tarantino, i personaggi sono portatori di istanze diverse, e nei loro dialoghi si riflettono le divisioni ancora presenti dopo la Guerra Civile. Però qui è da subito chiaro come tutti sono sempre completamente negativi, in fondo nient’altro che assassini, bianchi o neri, cacciatori di taglie o (sedicenti) sceriffi che siano.

Così, Tarantino ci racconta come la Storia degli Stati Uniti è bagnata dal sangue e dalla violenza e, al posto di avanzare verso il progresso, ristagni nella bufera. Alla fine del film, riprendendo beffardamente la filosofia esposta da Mobray, Warren intima a Mannix di non sparare a Daisy, ma di agire secondo giustizia, ovvero appendendola a una forca improvvisata. Un ideale di civiltà che appare più un atto barbaro, un’esecuzione sommaria che diventa un inevitabile rimando al presente. Così, anche l’atteso fiume di violenza nell’ultima mezz’ora (il tratto più tarantiniano, o almeno quello tipico del primo Tarantino) dura ben poco, lasciando il passo ad una beffarda elegia, dove si vedono Warren e Mannix accasciati insieme. Due compari che, dopo molteplici accuse e insulti, si ritrovano fratelli “nel sangue”, la cui unione è troppo tardiva perché neanche il potere del Cinema, come negli altri film, possa salvarli dal loro destino.

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