The Lighthouse è su Netflix

Uno degli aggettivi più comodi da usare quando si parla di cinema horror è “lovecraftiano”: automaticamente evoca immagini di orrori cosmici, tentacoli e abissi di follia, ma senza scendere troppo nei dettagli – il concetto di “lovecraftiano”, molto chiaro quando si parla di letteratura, è indefinito e amorfo quando trasportato al cinema, e spesso basta un cefalopode sproporzionato o un manicomio per tirare in ballo l’autore di Providence. In The Lighthouse ci sono tentacoli (pochi), c’è la follia, ci sono misteri misteriosi e c’è qualcosa che non bisognerebbe mai guardare direttamente se non si vuole impazzire: tanto è bastato per catalogarlo come “horror lovecraftiano” al momento dell’uscita, una definizione che gli è rimasta un po’ appiccicata addosso e che, ora che il film arriva su Netflix, proveremo a mettere alla prova.

Prima di parlare di The Lighthouse bisogna discutere di come l’aggettivo “lovecraftiano” nasconda in realtà almeno due significati diversi. Il termine si può ovviamente applicare a ogni opera scritta da HP Lovecraft nella sua vita, se lo si prende nel suo significato più letterale. Ma il punto è che Lovecraft è stato, in un certo senso, l’inventore della fan fiction e il suo più grande sostenitore. Nonostante fosse un noto misantropo, intratteneva fitte corrispondenze con un gruppo di scrittori, il Lovecraft Circle, che venivano incoraggiati a scrivere storie, racconti, romanzi afferenti al Ciclo di Cthulhu o più in generale alla mitologia lovecraftiana.

The Lighthouse Thomases

Robert Bloch, per esempio, autore tra l’altro del romanzo da cui è tratto Psycho di Hitchcock, era un membro del Lovecraft Circle, come lo era anche Robert E. Howard, l’inventore di Conan, che scrisse sei racconti per Weird Tales che si collocano nel Ciclo di Cthulhu. Del Circolo facevano parte altri autori che avrete già sentito nominare, da August Derleth a Clark Ashton Smith. Cosa significa tutto questo? Che “lovecraftiano” è un aggettivo che si può ufficialmente associare anche a tutte le opere uscite dal Lovecraft Circle, e per estensione (a maggior ragione ora che gli scritti di Lovecraft sono di pubblico dominio) a qualsiasi opera scritta da qualcuno che si è voluto inserire in quel canone – ivi inclusa gente come Stephen King, che Jerusalem’s Lot, racconto breve che fa da seguito a Salem’s Lot, cita direttamente Yog Sothoth.

Con il tempo, quindi, il significato di “lovecraftiano” si è espanso a dismisura ed è anche diventato più confuso e meno definito. In questo senso, The Lighthouse non dovrebbe aver problemi a inserirsi nel canone. E in effetti Robert Eggers ha usato (anche) Lovecraft come ispirazione per il film – ma non come pensate. Come ha raccontato al tempo, l’autore di Providence faceva parte di una shortlist di gente che in carriera ha trattato tematiche relative al mare, ai miti del mare e al modo di parlare di chi vive per mare o vicino al mare. Più che per i temi, quindi, Eggers si è ispirato a Lovecraft per il linguaggio, e come a lui anche a Samuel Coleridge (sostituendo però l’albatro con un gabbiano), Herman Melville, Robert Louis Stevenson. I due Thomas (Willem Dafoe e Robert Pattinson) parlano come se fossero usciti da un romanzo di Lovecraft – la domanda è se lo siano davvero o meno.

Willem

Le opere di Lovecraft sono caratterizzate da alcune tematiche ricorrenti e ormai arcinote: una su tutte la convinzione che la realtà sia molto di più di quello che vediamo con i nostri limitati mezzi, e che tutto ciò che si trova al di fuori di questo confine arbitrario sia spaventoso, gelido, impersonale, soprattutto grosso, non solo come dimensioni ma proprio ontologicamente – non solo grande, ma più grande, spaventosamente più grande di noi esseri umani, e quindi incomprensibile per sua stessa natura. Non a caso Lovecraft condivideva con Dante Alighieri la passione per far perdere i sensi ai suoi personaggi quando questi si trovavano di fronte a qualcosa di incomprensibile o indescrivibile. In questo senso, il finale di The Lighthouse è molto lovecraftiano, con il momento di esposizione al mistero del faro che fa impazzire il protagonista; è però anche una citazione abbastanza diretta del mito di Prometeo, ed è qui che casca l’asino con i tentacoli.

The Lighthouse è lovecraftiano in certi elementi, ma la realtà è che è un Frankenstein di ispirazioni. Si va dalla mitologia greca (Prometeo, ma anche Poseidone, Proteo “l’immortale vecchio del mare”, le sirene…) a Sigmund Freud (lo dice Eggers, non noi), arrivando a quello che è forse il riferimento principale, per il film come lo fu al tempo per HP Lovecraft. Parliamo di Edgar Allan Poe, che intrideva le sue storie di psicologia, di studio dei personaggi e di interazioni (dove Lovecraft generalmente trattava di persone che andavano da sole in cerca di risposte, e spesso non avevano direttamente amici né famiglia) e che puntava quindi più sulla concretezza dei rapporti umani che sul soprannaturale.

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Poe scrisse addirittura, cominciando nel 1849, un racconto breve intitolato The Light-House, rimasto incompiuto a causa della sua morte ma che, anche nella sua forma parziale, contiene tanti spunti che si ritrovano nel film di Eggers. The Lighthouse, dunque, è lovecraftiano non tanto direttamente, quanto nella misura in cui Lovecraft stesso era un seguace di Poe e a lui si era ispirato in quanto “Dio della finzione” (parole sue). È Poe-iano, anche perché gli manca quella consapevolezza che Lovecraft aveva essendo vissuto in un periodo di grandi avanzamenti scientifici e di altrettanti nuovi misteri cosmici: la consapevolezza, cioè, che la scienza e il progresso non sono altro che ulteriori chiavi per nuovi orrori cosmici. In The Lighthouse non c’è nulla di moderno – nel senso di novecentesco –, è un film d’epoca i cui stessi protagonisti guardano al passato e ai miti del mare, non al futuro e alle nuove, terrificanti frontiere della conoscenza.

Un’ultima cosa, che potrebbe sì essere lovecraftiana ma in un modo curioso. Il film è in parte ispirato anche a un fatto di cronaca, un incidente del 1831 alla Smalls Lighthouse in Galles nel quale perse la vita uno dei due Thomas che fungevano da guardiani del faro. Terrorizzato dalla prospettiva di essere accusato dell’omicidio, l’altro Thomas mise il cadavere in una bara, che conservò sull’isoletta al sicuro dagli abissi marini; il corpo ovviamente cominciò a decomporsi, e il Thomas vivo dovette passare il resto del suo periodo di guardia in compagnia del cadavere fragrante dell’amico. È la classica situazione nella quale la mente vede cose che non esistono, e che Lovecraft usava spesso per suggerire che queste “cose che non esistono” in realtà forse esistono davvero, ed è solo perdendo il senno e mollando quindi la nostra presa sulla realtà che riusciamo a vederle davvero. Incidentalmente, l’esperienza fu talmente dura per il povero Thomas che gli amici faticarono a riconoscerlo quando tornò a casa, e il governo inglese cambiò la politica di gestione dei fari obbligando i guardiani a lavorare in team di almeno tre persone.

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