Thor: Love and Thunder vuole fare arrabbiare metà del suo pubblico, e ci riesce benissimo! Lo sappiamo perché l’ha detto Taika Waititi stesso poco tempo fa:

Volevo mostrarlo sotto una luce che i fan non avrebbero voluto vedere. Se avessi detto: “Proprio così, mostrerò Thor innamorato”, sono sicuro che sarebbe stata l’ultima cosa che volevano.

Una dichiarazione di intenti chiarissima e impossibile da fraintendere: vuole puntare in alto anche a costo di scontentare. Sicuro di quello che vuole, non ha intenzione di dare nemmeno una soddisfazione a chi non è d’accordo con il suo cinema.

Taika Waititi è un pazzo autolesionista o c’è una ragione per cui vuole farsi odiare?

Fa tutto parte del piano. Arrivato a Thor: Ragnarok con lo scopo di rinfrescare il personaggio e dargli una nuova centralità nell’MCU, Taika Waititi ha replicato con Thor: Love and Thunder. Ha preso il connubio tra dramma e umorismo scanzonato e l’ha portato al quadrato, si potrebbe dire, con tutte le conseguenze del caso. Cioè sapendo che chi ha amato il suo primo film può accettare bene anche questo nuovo capitolo, chi l’ha odiato lo odierà ancora di più. 

E l’ha fatto con tutta la consapevolezza possibile. Raccontando il film proprio come divisivo, folle, e personale. Senza tagliare mai ciò che è stato controverso nel film precedente, anzi eccedendo ancora di più. Un film radicale, estremo se si considera il genere a cui appartiene. L’ha fatto con l’appoggio di una Marvel che si sta confrontando con l’urgente bisogno di non replicare i suoi modelli e trovare nuovi linguaggi. A differenza della fase 3, che chiudeva con scelte sicure le trame, ora se ne aprono altre e lo si fa con più personalità di quanta ne abbiano mai avuta. Anche a costo di dividere e scontentare parte del pubblico. Gli esempi concreti sono Eternals, Doctor Strange nel multiverso della follia e Thor: Love and Thunder stesso. Opere che hanno spaccato la fanbase, ma che sono ben più significative nel disegno totale degli innocui, a nostro avviso, Shang-Chi e Black Widow

thor love and thunder

Divide et Impera

La sua missione è quella di rompere, separare, deludere le aspettative e quindi spiazzare, mettere di fronte a una scelta: amare con fede o odiare con rabbia il film? La divisione netta in due è sia nel pubblico che nella storia. Un contrasto emotivo proprio come quel bianco e nero che assorbe tutto contro l’eccesso di dettagli visivi. La semplicità del male contro lo sfarzo di chi si reputa dalla parte del bene. Solo che questo contrasto non si svolge in alto, nelle leggende a cui siamo abituati, ma in basso nell’idiozia sovrumana. Chi altro è riuscito a sbeffeggiare così i suoi personaggi?

Waititi scrive la sceneggiatura mixando due run dei fumetti di Jason Aaron dal tono cupo e meditativo con un film coloratissimo e rock più in linea con la sua produzione. Eppure ama tantissimo entrambe le trame. Crea una fiaba oscura della buona notte, con un uomo nero che rapisce i bambini e una speranza che si ostina a rinascere.

Non sempre l’alternanza tra i due estremi riesce a trovare la giusta armonia, a volte il passaggio repentino dal dramma alla commedia stempera una delle due atmosfere. Quando funziona però, soprattutto nel terzo atto con lo scontro dell’oscurità con i colori, il film diventa incredibile.

Thor: Love and Thunder riesce infatti a creare un’atmosfera mai vista prima, difficile da catalogare o da descrivere usando meno di quattro-cinque aggettivi. La carica dei bambini non è epica, è comica, ma il riferimento cinematografico su cui è pensata è addirittura inquietante (il villaggio dei dannati) mentre la musica trascina nell’action come nei grandi momenti di eroismo. Tutto sovrapposto, tutto insieme. A che genere appartiene questa roba? Al genere Taika.

Thor: Love and Thunder ha due anime

Una classica avventura di Thor”. È il protagonista stesso a dirci come interpretare il film e sopravvivere a questa dissonanza. Andare sul classico, quindi riportare alla memoria quei fumetti minori, sgualciti e gettati negli scatoloni, però così pieni di stile e caricati a forza di emozioni.

Per la seconda volta in un film Marvel (sempre pianificati al millimetro) c’è la sensazione di improvvisazione. Alcune battute sono nate proprio sul set e accettate dagli attori che recitano un copione estremamente libero.

Impossibile che una cosa del genere metta d’accordo tutti. Anzi, in sala si possono sentire i nervi che saltano sin dall’inizio, con il primo deicidio di Gorr. È la seconda morte in pochissimi minuti, giusto dopo quella iniziale e straziante della figlia. Il design della scena cambia radicalmente: sul film di un uomo esiliato nel deserto si innesta un’altra estetica che potrebbe essere quella di un’opera di animazione per famiglie. I colori si accendono, le forme, prima spigolose e desaturate, diventano più tondeggianti e cariche di luminosità. Gli Dei sono finti, teatrali, esagerati, sembrano delle action figure che non comprerebbe nessuno.

Thor: love and thunder zeus

Continua così la decostruzione di Thor: Ragnarok, dove il regno di Asgard si rivelava fondato sulle menzogne. Non si salva nemmeno Thor, solo Jane Foster è equilibrata e incarna un ideale eroico consolidato. È qui che lo spettatore si sente tradito dalla figura del potente Dio, qualunque esso sia, così finta e posticcia. C’è un’altra persona che ha la stessa reazione, solo che lui è nel film e risponde al nome di Gorr. Perché lui è come noi: un deluso, un diviso in due. Lancinato dal dolore odia l’idiozia degli esseri più potenti, ne ride e li deride senza che loro se ne accorgano proprio come fa lo spettatore.

In Thor: Love and Thunder nessuno è in grado di agire e risolvere le cose. Nei film precedenti era il compito di Odino, padre senza un vero erede dato che suo figlio ha deciso di allontanarsi dal continuare il regno. Ora il pantheon è solo showbusiness. È brutta, orribile, la saetta di Zeus dalla consistenza plasticosa. È però l’oggetto che meglio lo racconta: finto, costruito, e alla fine… da poco. 

Thor: Love and Thunder è un film diviso in due anime che divide anche il pubblico. Lo fa arrabbiare, si presenta come insopportabile per taluni, per altri delude le aspettative fatte di scontri epici e grandi gesta eroiche. Ed è qui la sua grandezza. È proprio qui infatti il senso di una provocazione sorprendentemente coerente con quello che si vede a schermo. 

La rabbia è parte del gioco

Taika Waititi non vuole che amiamo questi Dei, anzi li odia persino lui (quindi chi li venera per il fascino della loro piena potenza leggendaria non troverà soddisfazione). Vuole emanciparci, e per farlo ci mette nell’esatta posizione di Gorr: delusi li rifiutiamo, li vogliamo vedere morti, vogliamo decidere noi cosa devono essere e come devono fare. Persino Thor si ritrova così sconvolto dal loro essere ridicoli, privilegiati, luminosi e pressoché immortali. Il mondo di Love and Thunder è drammatico, epico e violento. Solo che i protagonisti non se ne accorgono fino alla fine, presi come sono tra le orge, i baccanali e la burocrazia.

Non è un problema. Perché il film non esalta le divinità, le distrugge. Non racconta di religione o solo di amore e guerra. Questa fiaba dalle molte anime è dedicata alla delusione e alla crisi. Quella di mezza età per Thor, ma anche quella del ruolo degli esseri divini in un’epoca di supereroi.

THOR LOVE thunder capre

La doppia anima si ricompone sul finale, si cerca una risoluzione della divisione sia narrativa che quella verso il pubblico sconcertato. Gli Dei non hanno riscatto, sono imperdonabili. Solo due figure si salvano e tengono insieme il film. Una è mortale e disposta a sacrificarsi entrando in battaglia (con l’atto più divino del film), e un altro guerriero che riesce a trovare se stesso amando incondizionatamente e prendendosi cura di un’altra vita.

Thor: Love and Thunder cerca di essere così il film Marvel più divisivo perché nel rifiuto c’è un senso interno al racconto. Perché traccia una linea netta tra chi si dice potente, ma incapace di usare quel potere e chi invece capisce come cambiare. Per la prima volta alla fine dell’avventura il supereroe non diventa più forte. Nella corsa finale c’è la fragilità di un Dio che è finalmente diventato qualcosa di completo, e quindi sincero, comprensibile, epico, coraggioso. In poche parole: un genitore molto umano.

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