Trentaquattro anni e già molto esperto. Filmmaker totale perché anche produttore delle formidabili pillole web che fanno esplodere The Pills nonché del prodigioso Sydney Sibilia dell’esordio Smetto Quando Voglio. Matteo Rovere arriva con il suo terzo film da regista dopo Un Gioco Da Ragazze (2008) e Gli Sfiorati (2011) al primo vero successo commerciale della sua carriera dietro la macchina da presa. Ci riferiamo all’interessantissimo Veloce Come Il Vento, pellicola che sicuramente vedremo piazzarsi con personalità dentro i prossimi David di Donatello 2017 visto che il film non è uscito in sala in tempo per partecipare all’appena conclusasi cerimonia del 2016.

Siamo ad Imola dove l’ex pilota rally diventato tossico Loris De Martino (Stefano Accorsi) incontra dopo tanti anni la sorella più piccola Giulia (Matilda De Angelis), aiutandola a gareggiare dentro il campionato Gran Turismo dove lei, se non vince, si troverà non solo sconfitta ma costretta a cedere la casa di famiglia dove vive, orfana di padre e madre, in compagnia del fratellino Nico (Giulio Pugnaghi). L’intervista, realizzata negli uffici della casa di produzione romana di Matteo Rovere Ascent Film, è, in linea con gli incontri lunghi e approfonditi realizzati da BadTaste.it con Gabriele Mainetti e Paolo Genovese, particolarmente adatta a chi ha già visto il film, sia perché si entra nel dettaglio sia perché si discute, anche dialetticamente, riguardo il finale del film. Per cui attenzione se volete evitare spoiler. Per tutti gli altri, ovvero quelli che hanno contribuito in sala a far arrivare Veloce Come Il Vento a 2 milioni e mezzo di euro di incasso + anche i fan di Gianni Morandi… buona lettura!

***


È un momento in cui stiamo tornando alle quattro ruote anche perché esce Microbo e Gasolina di Gondry. Qual è il tuo rapporto con le macchine della tua vita e con la macchina in generale?

Il film ha varie partenze vicine alla mia vita. Quando avevo 15, 17 anni passavo molto tempo con mia nonna, la mamma di mio papà, la quale possedeva una Peugeout 205 1600 Diesel. Era una macchina geniale. Vecchissima. Ho imparato a guidare con quella macchina e devo essere sincero… anche prima dei 18 anni la rubavo spesso a mia nonna. Ci andavo in giro con mia sorella. L’elemento meccanico mi affascina e mi diverte. Il mondo delle macchine mi incuriosisce. Non tanto per una fascinazione per la velocità che possiamo definire quasi futurista, quanto piuttosto per l’idea della macchina come strumento di esaltazione. Soprattutto le macchine sportive.

Puoi essere più specifico?
In fondo sono oggetti inutili e fini a loro stessi o meglio finalizzati alla sola esperienza. Questo mi affascina. E poi ovviamente la base di Veloce Come Il Vento è mio papà che mi portava quando ero piccolo da questo meccanico di macchine d’epoca che si chiamava Gianni Sciullo, un personaggio veramente interessante. Passavamo con lui e la sua squadra degli interi weekend mentre li vedevamo riparare le macchine d’epoca. Prendevano delle macchine da 6-700 mila lire e le assemblavano pezzo per pezzo. Dalle 500 alla Lancia Flavia, Fulvia, tutte le Lancia in generale. A me, che in tutta sincerità me ne fregava relativamente di quella roba lì… vederli tanto appassionati mi ha lasciato qualcosa.

È un mondo che ti ha catturato?
Sì, perché c’è la passione vera quasi fine a se stessa. Questa passione della modifica del mezzo e della rielaborazione o della ricostruzione di un modello attraverso componenti esterni. Poi se ci pensi… ora questa cosa è completamente démodé…

E dunque perché questo interesse?
Io faccio film e in giovinezza mi sono sempre trovato esaltato da queste pellicole che avevano la macchina al centro. Da quelli più cheap tipo Taxxi (1998), prodotto da Besson, a Ronin (1998) di Frankenheimer e cioè tutto quel cinema che metteva in scena le auto in corsa. Ho rispolverato dopo anche il poliziottesco italiano perché io a quel genere sono arrivato tardi, diciamo dopo i 25 anni. Alla fine riflettendo… ho pensato che quel tipo di film con la macchina molto protagonista dentro i fotogrammi mancava al nostro cinema. Poi le aderenze familiari e le esperienze di vita che ti ho raccontato… mi hanno fatto venire definitivamente la voglia di farlo.

Come ha reagito l’esterno inizialmente a questa tua intuizione?
I miei sceneggiatori di fiducia sono tutti un po’ intellettuali e quindi hanno reagito con una certa diffidenza. Domenico Procacci invece no. Procacci si è subito entusiasmato.

Perché?
Perché è un uomo che va in giro con una Bmw M3 e cioè una macchina un po’ pazzoide.

Lui forse, da ragazzo classe 1960, ancora di più appartiene a una generazione meccanica e analogica…
Lui è uno da pista, da modifica. Domenico è quello da moto fuori dal bar. Forse questa roba è anche il senso della provincia rispetto a chi come me e te è cresciuto a Roma, città che ottura e ottunde. Questa idea della provincia d’Italia come luogo di elezione della meccanica e delle macchine è poi andata completamente a finire nel personaggio di Loris. L’odore di benzina, la sporcizia e il fatto che lui si appassioni così tanto alle macchine… è la vera droga. L’altra droga, il crack, è stata chiaramente trattata come metafora.

L’INTERVISTA CONTINUA A PAGINA 2 – >

Classifiche consigliate