Monolith è un film il cui budget si aggira intorno al milione di dollari e la cui durata è inferiore ai 90 minuti, un thriller con una protagonista sola, un bambino (che in realtà erano due gemelli per esigenze di produzione) e pochi altri ruoli marginali. Girato nei deserti dello Utah, scritto a partire dalle idee di due autori di fumetti, Roberto Recchioni e Mauro Uzzeo, poi completato da un team di sceneggiatori tra cui lo stesso Ivan Silvestrini che l’ha diretto.
Sono condizioni realizzative straordinarie per un film italiano di genere che racconta una storia molto americana: l’idea di sicurezza che muore sola nei grandi spazi.

Presentato in anteprima italiana al Science + Fiction Festival di Trieste (quella internazionale è stata al Frightfest di Londra), il film però non ha ancora una data di uscita, visto che le trattative con i distributori italiani sono attualmente in corso. Intanto abbiamo potuto incontrare il regista Ivan Silvestrini per capire di più della realizzazione di questo film italiano che racconta una storia americana.

Quando il concept è così stringente possono accadere tantissime cose, si può andare avanti anche diverse ore in teoria, bisogna dunque scegliere quali eventi tenere e quali scartare. La sequenza finale di fatti di Monolith è sempre stata questa?

“Volevamo stare stretti e tenere la durata compatta, sono contrario ai film che durano troppo e poi questo genere solitamente ha questa durata. Del resto quando hai una protagonista sola gli eventi si condensano su di lei e non c’è motivo di andare per le lunghe. C’era qualcosa in più che abbiamo levato per questioni di ritmo e perché magari non ci convinceva troppo, è roba che non penso proprio che vedrete mai”.

Di che si tratta?

“Sono due scene. Una già a fine riprese non mi convinceva più perché mi sembrava “già vista”, l’avevamo girata ma poi si è rivelata pesante. E l’altra era troppo ripetitiva. Questa è una storia in cui una donna prende una macchina a pugni e mazzate, e originariamente ce n’erano anche di più. Forse troppe. Anche se il problema da risolvere è sempre lo stesso, volevamo che ogni scena avesse un approccio diverso al tentativo di risoluzione”.

Quanto conta la plausibilità degli eventi in un film come Monolith? Quanto si può esagerare e quanto diventa controproducente?

“Il film ha due livelli. Uno è molto realistico, perché la Monolith non è poi così fantascientifica, esistono macchine che parlano o che possono sopravvivere all’esplosione di una mina, abbiamo solo messo insieme caratteristiche che esistono con in più un appeal futuristico, non volevamo fosse una Panda ecco.
L’altro è tutto ciò che accade fuori dalla macchina, che oscilla tra il realistico e l’immaginifico invece. C’è un universo di simboli introdotti nella prima parte che poi tornano come se Sandra stesse affrontando i propri demoni dentro e fuori da sé”.

Il culmine del film, il suo finale arriva proprio sulla linea di confine della plausibilità, avete mai avuto dubbi?

“La questione è semplice. Io e Mauro Uzzeo abbiamo iniziato a scrivere il film insieme e siamo da poco diventati genitori, ci siamo chiesti cosa faremmo per salvare un figlio. All’inizio lo fai nella maniera più indolore possibile ma ad un certo punto, quando il tempo stringe, diventi disposto a tutto”.

Lei l’avete immaginata come l’eroina di uno slasher movie? Tutta sporcizia e canottiera?

“Diciamo che viene da un immaginario da fumetto. Nel film deve passare da donna ricca e benestante attraverso eventi che le sottraggono quella patina, non avendo cambi d’abito abbiamo usato dei trucchi e dei cambi visivi per farla mutare. Così per ragioni contestuali si deve parzialmente spogliare, cambiando immagine e poi le condizioni atmosferiche le cambiano pelle e capelli, e alla fine è molto diversa rispetto all’inizio”.

Come fai a far piangere a comando un bambino così piccolo? Ci vuole una punta di sadismo?

“È facilissimo, gli dai una cosa e gliela togli di colpo, lui non capisce perché e piange. Il problema è che se piange troppo non lo recuperi più per le altre scene, specie se devi fare un pianto lancinante, in quel caso l’hai perso. Per questo abbiamo usato due gemelli, con uno giravamo la mattina e con l’altro il pomeriggio.
Ogni inquadratura e reazione che vedi è stata ottenuta con un diverso gioco inventato apposta per generare quella reazione lì. Tra me, l’aiuto regia e Claudio il produttore eravamo un team che si occupava di questo, gli davamo la confidenza e poi gliela levavamo per stranirlo. Non era uno stress innaturale per loro eh, erano nell’età in cui devono cominciare a calmarsi da soli. Poi insomma avevamo la madre sempre con noi sul set”.

E invece riuscire a “non fargli fare” delle cose come quando non riesce ad aprire la macchina….

“È così difficile che ad un certo punto uno dei due, girando, voleva uscire e ha effettivamente aperto la macchina!”

Immagino che tu abbia visto Mine, è un caso che nello stesso anno siano usciti due film italiani che sembrano americani con personaggi soli nel deserto?

Fabio Resinaro e Fabio Guaglione li conosco e, anche prima di vedere Mine, ho sempre considerato questi due film come fratello e sorella, perché hanno entrambi un protagonista solo nel deserto con una situazione difficilissima da risolvere, anche se i deserti sono completamente diversi. Il loro è un deserto più classico, un deserto mediorientale. Io invece avevo molta paura che il deserto risultasse visivamente noioso, che è il suo rischio. Ho cercato allora prima nel New Mexico e poi nello Utah (che si è rivelato il posto perfetto), trovando un deserto variopinto, rosso (che dà al film dei colori da Mad Max) e poi pieno di pattern e striature (perché prima c’era l’oceano), ci sono montagne anche blu e grigie. Pensa che è dove è stato girato John Carter.
Combinando location nemmeno troppo vicine tra loro abbiamo creato questo mondo in cui la protagonista si trova, un mondo con i suoi colori e la sua vegetazione”.

Ad un certo punto c’è anche un aeroporto nel deserto, dove l’avete trovato?

“Quello è un momento a cavallo tra reale e onirico. In America in realtà è pieno di cose abbandonate nel deserto. Siamo andati in una sorta di cimitero degli aerei, dove aeromobili di linea vengono abbandonati. Ne abbiamo isolato uno per dare alla situazione un che di estremo, ma sono cose che esistono. Non era qualcosa presente nella prima sceneggiatura, l’abbiamo trovato facendo i sopralluoghi, cercando mete per il girovagare di Sandra”.

Avrebbe senso fare un film simile con un’attrice italiana in una zona sperduta della Basilicata?

“Ogni storia ha la sua location perfetta. Questo tipo di storia con la sua ossessione per la protezione e il culto dei grandi SUV è perfetta per l’America, dove c’è la vertigine dell’ipertecnologia delle grandi macchine e dove esistono scenari ampi come il deserto. In Italia è complicato trovare un luogo così deserto per miglia e miglia. Penso che il fumetto stesso sia pensato per essere ambientato in America, anche perché questo tipo di storie si fanno lì”.

Il doppiaggio l’avete già fatto?

“Appena finito”

Come va? Perché già per Mine, spesso il passaggio da italiano ad inglese e poi di nuovo in italiano genera strane espressioni di doppiaggese…

“Eh il rischio c’è e io il doppiaggese, per usare un eufemismo, non lo amo, ma quando lo devi fare capisci che questa sorta di italiano astratto per certi versi è inevitabile. Perché dovresti scegliere un dialetto? Farebbe strano. Quel che si può fare semmai è sporcare la cadenza con cui si parla il più possibile per non farlo sembrare troppo finto. Si può fare fino ad un certo punto e spero di esserci riuscito”.

Molti penseranno che è un film americano. Secondo te è un bene?

“Credo sia inevitabile. Negli ultimi decenni si è persa fiducia nel cinema italiano di genere. Si è persa la credibilità negli attori. Lo crederesti mai un attore meraviglioso come Silvio Orlando in un film di fantascienza? Nirvana aveva trovato una formula per far funzionare attori come Abatantuono in un contesto di fantascienza ma è rimasto l’unico. Ora la mia generazione di registi sta cercando di riavvicinare il pubblico a queste cose e quel che più c’è riuscito, anche visto il riscontro, è stato Gabriele Mainetti con Lo Chiamavano Jeeg Robot”.

Pensi quindi che alcuni film sia necessario si mascherino da americani per essere fatti in Italia?

“Non credo si mascherino da americani, credo lo siano. Film americani concepiti da menti italiane”

Quanto pensi farà e quanto speri farà?

“Non lo so, dipenderà da come verrà lanciato”

Ma la tua speranza?

“Non posso dirlo. Ti direi cose per le quali sarei punito [ride ndr]. Ma considera comunque che è stato venduto già almeno in America come film televisivo, Giappone e altre nazioni asiatiche (non me ne occupo io e quindi non lo so benissimo), ha tempo per rientrare del suo budget, non è una commedia regionale che deve rientrare solo con gli incassi italiani”.

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