Non so se stava inciso nella pietra da qualche parte che un giorno sarei finito a scrivere sulle pagine di un sito battezzato con lo stesso nome dell'opera prima di un regista che, fin da quando ero adolescente – parliamo di tre abbondanti lustri fa – rientra nel novero dei miei filmmaker preferiti. Immagino non sia questo il posto e il momento adatto per enucleare a dovere gli scontri fra predestinazione e libero arbitrio. Massimi sistemi a parte, non so neanche con precisione se quello che sto per scrivere – e di rimbalzo voi per leggere – sia una recensione, un editoriale, uno speciale sullo Hobbit – Un Viaggio Inaspettato.

La forma verrà maieuticamente fuori da sé mano a mano che riverserò le parole tramite la qwerty su questo documento digitale.

“In una buca del terreno viveva un hobbit”.

Con questa frase vergata dal Professore su un foglio bianco, narra la storia che sia nato il romanzo che ha poi dato il via allo sviluppo di una delle più importanti saghe letterarie della letteratura inglese e mondiale. In quella “buca”, in quello “smial” così accogliente dove ancora oggi, come 18 anni fa, vorrei tanto vivere fumando erba pipa mentre osservo il tramonto seduto su una panchina accanto all'uscio, ci sono finito grazie alla mia oltremodo illuminata professoressa del Ginnasio. E' così che ho conosciuto Tolkien, grazie a quella terribile madre matrigna chiamata “scuola”. Il coraggio di avvicinarmi al Signore degli Anelli, lo ammetto, lo ebbi solo qualche anno dopo, nell'estate post-maturità. I miei compagni di classe erano andati a fare i bagordi in qualche isola greca e io, senza l'ombra di un quattrino, decisi che era arrivato il momento di un altro genere di vacanza e d'intraprendere un viaggio di “andata e ritorno” dalla Contea a Mordor insieme a Frodo e compagnia bella. Un viaggio che non avrei mai più dimenticato e che anzi, come un fan del Professore giusto un leggermente più celebre e meritevole di stima del sottoscritto, Christopher Lee, avrei poi ripetuto a cadenza annuale, accompagnandolo e ampliandolo con le altre opere di Tolkien.

Intermezzo dickensiano con tanto di sipario d'indigenza economica a parte, in quei giorni ero già “invaghito” da un po' di quel paffuto regista neozelandese che girava dei film splatter carichi di quella stessa, ironica energia tipica dei cartoon di Chuck Jones. Pertanto la notizia che sarebbe stato Peter Jackson a traghettare l'epopea tolkeniana sul grande schermo come nuovo progetto post Sospesi nel Tempo mi rassicurava molto. Questo accadeva anche se per il 90% del globo si trattava di un quasi “signor nessuno” alle prese con una di quelle opere ritenute praticamente infilmabili. La sicuméra certezza che le mie speranze sarebbero state comprovate da fatti, arrivarono ben prima dell'uscita della Compagnia dell'Anello nelle sale. Un giorno, su Ciak, trovai pubblicato a pie' della pagina dedicata ai vari aggiornamenti sui film in lavorazione un artwork del film. Si trattava del passaggio in cui la Compagnia, a bordo delle imbarcazioni elfiche, attraversava l'Anduin nei pressi degli Argonath, le colossali statue d'Isildur e Anàrion perennemente impegnate ad ammonire, con la loro mano alzata, tutti quelli che avevano l'ardire di passare oltre i confini settentrionali del Regno di Gondor. Ricordo di aver pianto di gioia perché era uno di quei casi in cui, in maniera letterale le fantasie di una persona diventavano realtà. L'ennesima dimostrazione, ancora solo ed esclusivamente potenziale, di quello che il cinema era, ed è, in grado di fare.

Mandiamo avanti il racconto di qualche anno.

Una volta divorati con gli occhi i tre film nelle sale – i miei amici ancora oggi mi prendono in giro perché tutti ricordano distintamente come io abbia sbattuto le palpebre un massimo di cinque volte per ciascun capitolo in maniera tale da non perdere il minor numero possibile di fotogrammi – la mia fiducia verso Jackson e tutta la Weta venne ampliamente ripagata. C'era il valore produttivo dell'opera in sé certo – una trilogia di dimensioni ciclopiche girata back-to-back riprese aggiuntive escluse – ma soprattutto c'era il valore artistico. Tutto l'universo stratificato della pagina di Tolkien in cui ogni personaggio affonda le radici in una storia alternativa alla nostra, ma altrettanto ricca, veniva rappresentato con tutto il vigore di una regia che non trascurava di affondare le mani nel fango, nello sporco, nella terra sotto le unghie dei personaggi, negli intarsi delle armature e degli elmetti delle varie razze e popoli, nelle fucine sotterranee in cui aberranti creature nate dall'oscurità distruggevano la natura per assecondare i deliri di un vecchio stregone ormai privo di senno. Tutta la mole dell'opera letteraria veniva tradotta per lo schermo grazie a un adattamento mai troppo lodato in cui ogni limatura, l'eliminazione di ogni passaggio (o personaggio), ogni aggiunta diegetica e, più in generale, ogni “tradimento” della pagina scritta veniva effettuato in maniera precisa, puntuale, perfettamente pertinenti ai tempi e ai ritmi del racconto cinematografico. E tutto il tema dell'ossessione del potere, di come questo possa corrompere l'animo era li, presente, palpabile.

Temibile.

Senza perderci in altre inutili chiacchiere su quanto sia stata travagliata la gestazione di questa nuova incursione di Peter Jackson nella Terra di Mezzo, posso, anzi, devo ammettere per onestà intellettuale che nonostante l'idea del “adesso ESIGO di vedere Lo Hobbit al cinema” si sia palesata nella mia testa all'uscita della proiezione del Ritorno del Re nel gennaio del 2004, un po' di perplessità questa volta l'avevo.

Tanto per cominciare c'è il diverso “peso” del materiale alla base. Paragonare Lo Hobbit al Signore degli Anelli è un po' come mettere sullo stesso piano una solida magione di campagna e il Palazzo Ducale di Urbino. Entrambi gli edifici adempiono a delle funzioni abitative, comunicano un concetto che va oltre il mero dato estetico e strutturale, ma dove uno è l'espressione del nucleo familiare che dimora al suo interno, l'altro è una rappresentazione allegorica di un intero modo di concepire le umane sorti. Inoltre, per quanto io abbia giustificato in tutti i modi gli eccessi, gli scivoloni, le lungaggini, lo sbilanciamento narrativo e l'autocompiacimento di un King Kong, temevo che Peter Jackson avesse smarrito per strada la capacità di “dosare” le giuste quantità d'ingredienti necessari alla preparazione di un adattamento fatto a regola d'arte. Timori indipendenti dal numero di capitoli in cui poi il libro sarebbe stato tradotto sul grande schermo e, semmai, più collegati alla paura di trovarsi davanti a una sorta di “bigino” delle atmosfere e dei toni del Signore degli Anelli cinematografico quando invece Lo Hobbit è, appunto, altro.

Il momento di fronteggiare queste paure per me è arrivato non con una qualche anteprima stampa in quel di Roma o Milano, ma, come tradizione tolkeniana vuole, con una “normalissima” proiezione a pagamento in una sala di una nota catena in cui avevo prenotato dei posti in ognuno dei quattro spettacoli previsti nell'arco della giornata. Per queste cose tendo a essere come Sheldon Cooper. Devo SEMPRE stare seduto nelle poltrone che mi garantiscono la miglior visuale e la miglior fruizione degli effetti surround quindi devo tutelarmi in anticipo.

Mea culpa, mea grandissima culpa.

Potrei concludere così questo articolo perché queste parole dicono già parecchio e lasciano intuire diverse cose, ma magari se siete arrivati a leggere fin qua non è carino liquidare il discorso così, tipo quegli horror found footage dove sembra che alla fine debba succede qualcosa d'incredibile e poi -TAC! – schermo nero.

Finito.

Tutti a casa.

Dieci euro buttati alle ortiche.

Prima ho parlato di “tradimento” a proposito della sceneggiatura del Signore degli Anelli: l'accezione, spero sia chiaro, era tutt'altro che negativa. Da questo punto di vista Lo Hobbit – Un Viaggio Inaspettato è un tradimento anche più grande. Dal momento che si tratta di un prequel in cui, contrariamente a George Lucas col suo Star Wars, Peter Jackson non si è trovato nella posizione di voler e poter fare quello che voleva collegandosi con quanto già fatto con la stessa “libertà” del filmmaker statunitense, l'ostacolo è stato aggirato affrontando in maniera diretta il vincolo di parentela fra le due opere – l'incipit del Viaggio è un “taglio alternativo” di quello della Compagnia – andando poi a erigere dei paletti mano a mano che la storia prosegue. E queste delimitazioni, fatte da contaminazioni provenienti dal Signore degli Anelli tanto letterario quanto cinematografico, vengono impiegati da Peter Jackson, da Philippa Boyens e da Fran Walsh per dare vita alla prima sezione di una trilogia che risulta certamente più prolissa della controparte letteraria, ma tendenzialmente più matura o, per usare un termine davvero appropriato in questo caso, epica. L'occhio del regista torna a fare quello che sa fare meglio: sporcarsi col lerciume della terra, col pus del tumore sul mento del Re dei Goblin, con il guano fra i capelli di Radagast, a immergersi nel clangore delle battaglie, degli eserciti che si schiantano in violenti scontri che magari, nel libro, vengono solo accennati e che, una volta arrivati sullo schermo, vengono sottoposti all'adeguato trattamento di spettacolarizzazione. A guardare con amore quei personaggi strampalati, bizzarramente assortiti e magnificamente interpretati da un manipolo di attori vecchi e nuovi. A farci toccare la "concreta paura" di un male incorporeo e serpeggiante.

All'inizio di questo articolo trovate linkate ben quattro recensioni del film. Non sento di dover aggiungere ulteriori valutazioni specifiche su un cast che, come quello del Signore degli Anelli, è perfettamente azzeccato. Quello che mi preme sottolineare è come, proprio grazie a quel percorso a ritroso che ha caratterizzato la gestazione degli adattamenti filmici di Tolkien, il discorso sull'ossessione del potere intabulato nella trilogia dell'ISDA venga circostanziato da Peter Jackson in una maniera che allo scrittore inglese è stata preclusa per delle ragioni lapalissiane. Nel bel mezzo di una congiuntura produttiva in cui le major paiono fare a gara nel voler raccontare “la storia mai vista” di questo e quell'altro "mito" andando a confezionare dei prequel di cui abbiamo bisogno come di una pasticca di antibiotico quando siamo in piena salute, Lo Hobbit – Un Viaggio Inaspettato conferisce alla strategia di Gandalf Il Grigio una luce ben diversa da quella che traspare dalla pagina scritta. E in tal senso, gli “indovinelli nell'oscurità” fra Bilbo e Gollum assumono dei contorni ben più drammatici che sulla carta (complice, ancora una volta, la sopraffina interpretazione di Andy Serkis).

Sappiamo già cosa accadrà e cosa è stato.

Sappiamo già che l'Unico Anello nelle mani di un Hobbit può, al massimo, creare il fantasma di quello che si è stati un tempo, mentre nelle mani di chi già ha un enorme potere finirebbe solo per fare dei danni epocali. E sappiamo anche, come Gandalf, che il “male che avanza” nella quotidianità nostra come quella degli Hobbit può essere sconfitto dal bene che nasce dalle piccole cose.

E allora possiamo anche sorvolare su una certa dose d'autoindulgenza, su alcune lungaggini forse fuori luogo, perché la Terra di Mezzo rivista dagli occhi di Peter Jackson è un entità troppo vivida, pulsante, magnetica per essere liquidata in maniera superficiale.

Siamo pienamente legittimati a sentirci di nuovo ospiti di un mondo già noto, eppure diverso, più lieto forse, dato che lo spettro di Sauron è ancora lontano. Fiabesco. Fatto di vecchi bacucchi strafatti di funghi allucinogeni che attraversano i boschi con slitte trainate da conigli.

Come Sam alla fine del Signore degli Anelli, possiamo sederci al buio della sala cinematografica e sentirci di nuovo a casa.

Egli trasse un profondo respiro. “sono tornato”, disse.