Non c’è genere più fisico dell’horror. Può esistere una storia romantica a distanza senza contatto tra i due amanti. Non può esistere paura senza, almeno, l’attesa di un possibile contatto fisico. Nella ciclicità che da sempre caratterizza i film di terrore, passata quella dei vampiri questi anni sono caratterizzati dal ritorno “cool” del cannibalismo. Proprio come loro, anche i cannibali hanno attraversato i generi. Sono partiti dalla crudeltà di Raw, sono stati pescati dalla cronaca di Dahmer, hanno toccato il dramma on the road con Bones and All e la commedia nerissima con Fresh. Non si è persa nemmeno l’occasione di sfruttare lo scandalo Armie Hammer nel documentario inchiesta House of Hammer.

La carne umana ha assunto significati simbolici attraenti sia per i registi che per il pubblico in cerca di un cinema che sfidi il senso del proibito e rompa i tabù. Il cannibale rappresenta una società vorace di se stessa, una perversione interiore che esplode come una possessione incontrollabile (la discutibile messa in scena dei crimini di Jeffrey Dahmer). L’adesione degli sceneggiatori a questo nuovo (vecchio) mostro, segue l’emersione del cinema di cucina. The Menu presenta piatti deliziosi alla vista, ma gioca con ambiguità sulla carne e sui ricordi che questo suscita tanto che ad un certo punto ci si trova a mettere in discussione la sua provenienza. 

BONES AND ALL: LA NOSTRA INTERVISTA A LUCA GUADAGNINO

Il cannibalismo è diventato più glamour di quanto non sia stato in passato. Da Hannibal a Bones and All c’è stato in mezzo Neon Demon di Nicholas Winding Refn che faceva incontrare il mondo della moda, con la necrofilia e nutrimento umano. Una moda che, secondo il professore emerito di biologia Bill Schutt, intervistato dall’Hollywood Reporter, deriva da due fattori: la voglia di infrangere tabù e il fascino per il cibo, non solo come forma di gusto ma anche di nutrimento per certi versi mistico. L’autore del libro Cannibalism: A Perfectly Natural History ha quindi spiegato che quello del cannibalismo è tra i principali argomenti proibiti della società occidentale. L’aspetto rituale è stato spazzato via nelle culture occidentali diventando un tabù tanto da associare il cannibalismo a una forma primitiva di bestialità. Per queso, dice Schutt, abbiamo il fascino del proibito.

Diciamo che il cannibalismo è il tabù numero uno. Se poi aggiungi la componente del cibo puoi capirne il fascino. C’è questo aspetto cruento che crea attrazione per le persone che lo vedono attraverso il filtro della finzione, oppure queste storie di pazzi assassini. Vent’anni fa era Hannibal Lecter; ora è Timothée Chalamet. 

Perché proprio ora questa riemersione, quasi in senso glamour?

Ci siamo desensibilizzati alla violenza sullo schermo, soprattutto quando c’è il filtro della finzione. Ora puoi mostrare le viscere, il sangue e il gore e le persone se le godono, e poi hai questa idea di cibo. Ci può essere un’altra spiegazione ma per me è per questo che è così popolare.

Insomma, stando a quello che dice Schutt, sembra che stiamo per finire i tabù e, alla disperata ricerca di qualcosa da vedere per essere sconvolti, lo stiamo rendendo più malleabile e contaminatile con diversi generi. Un una certa misura lo stiamo normalizzando.

Il pensiero va quindi a quando il cannibalismo era usato veramente per sconvolgere, e non solo per attirare gente al cinema. Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato appare oggi ancora infinitamente più estremo dei titoli succitati. Non solo per il suo contenuto grafico, ma per le intenzioni con cui è stato creato. Un atto politico, rivoluzionario, cattivo, scomodo, capace di generare un odio tale da essere addirittura bandito (aggiungendo, ovviamente, la fascinazione del proibito). Un film che, con tutta la furbizia possibile, ha contribuito però a rafforzare il senso del proibito. Ha sconvolto con la carne viva.

Il futuro del cannibalismo per il cinema di oggi sembra invece molto più digeribile.

Fonte: Hollywood Reporter

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