È allegro e carico Todd Haynes quando sale sul palco della Festa del cinema di Roma, il suo Incontro Ravvicinato mette in mostra molto bene la voglia che il regista ha di parlare di cinema, del suo e di quello degli altri. Non capita spesso di ascoltare infatti autori che abbiano anche le idee così chiare e la capacità di esporle con semplicità. Tutto questo ha poco a che vedere con l’arte di fare film ovviamente e più con la personalità o l’abitudine a parlare in pubblico, di certo Haynes è stato uno dei più piacevoli da ascoltare e il suo incontro uno dei più scorrevoli.

L’incontro come sempre è stato puntellato da diverse clip

[CLIP da Lontano dal paradiso]

È possibile oggi essere un autore nel senso classico del termine lavorando all’interno del sistema degli studios hollywoodiani?

TODD HAYNES: Io mi considero un indipendente, non ho mai lavorato con uno studio di produzione, l’unica eccezione è stata la HBO per Mildred Pierce. I miei film sono molto diversi nello stile e spesso sperimentali narrativamente, ma riesco a realizzarli grazie a due fattori: gli attori che portano credibilità e boxoffice, cioè stabilità alla produzione, e poi la mia produttrice che mi supporta e combatte per me ogni volta.

Questo film sembra un omaggio a Douglas Sirk, quanto è ancora importante questo autore?

TH: Sirk è stata un’influenza fondamentale per me, un cineasta a cui fui esposto negli anni ’80 al college, nonchè uno degli ultimi autori americani ad essere rivalutato come tale, non era del giro di quelli adorati dai Cahiers du cinema. Un po’ sono stati i critici donna degli anni ’70 ad aiutarlo e poi ovviamente il lavoro di Rainer Werner Fassbinder. Ci sono molte maniere di parlare di Sirk e cosa sia davvero radicale del suo cinema e cosa abbia fatto con il “domestic melodrama”, io credo sapesse come usare il linguaggio artificiale per dire qualcosa di vero e quella dialettica è stata sempre qualcosa a cui anche io ho aspirato.

[CLIP da Velvet goldmine]

In questo film ci sono zoom, carrelli, primi piani improvvisi… Tutto quello che non vediamo mai nel tuo cinema,da dove viene questa scelta?

TH: Usare il linguaggio artificiale al cinema serve per descrivere la verità. Il periodo del glam rock fu un’era molto particolare, basata su un linguaggio artificiale e teatrale che veniva applicato al rock. Eppure quel linguaggio ha una storia che precede il glam, nasce con la queer literature e si trova in espressioni artistiche d’ogni tipo. Quindi ho solo preso quel che Bowie e quegli artisti già facevano, cioè creare un po’ di fiction in quel che erano, per realizzare un universo parallelo rispetto a quello vero ma è incredibile quanto poi nel film io abbia seguito la vera storia di questi artisti.

Nell’incontro con la stampa estera ho chiesto a Todd se esista un tema ricorrente nei suoi film, ce lo puoi dire?

TH: Credo che se dovessi ridurre tutti i miei approcci e ispirazioni a ciò che hanno in comune questo sarebbe “i diversi gradi di resistenza ai modelli di identità”. È vero per le donne nei mondi domestici, in cui i loro corpi cominciano a protestare anche inconsciamente attraverso la malattia, ma anche per artisti come Bowie e il glam rock oppure per Bob Dylan, persone che hanno rifiutato di essere inseriti in piccole scatole e star fermi lì, gli artisti del glam rock mettevano in questione l’identità sessuale con un immaginario androgino e Dylan lo faceva in una maniera ancora più complessa.

[CLIP da Safe]

Quando hai scritto questo film avevi avuto subito in mente Julianne Moore oppure c’è stato un lungo casting?

TH: All’epoca di questo film, che era il mio secondo lungometraggio, non la conoscevo stava solo iniziando la sua splendida carriera ma aveva letto la sceneggiatura e sapeva bene cosa fare con il personaggio. Fece l’audizione ed è stato uno degli eventi incredibili della mia vita, si è seduta di fronte a me ed ha materializzato il personaggio, si è creato un legame che ha cambiato la mia carriera e spero la sua. In seguito ho scritto Lontano dal paradiso pensando proprio a lei.

[CLIP da Io non sono qui]

Bob Dylan l’ha visto? L’avevi contattato prima di iniziare le riprese?

TH: Dopo un anno e mezzo che il film è uscito ne ha parlato in un’intervista su Rolling Stone, so che gli è piaciuto, e del progetto era stato subito felice, mi ha dato i diritti per tutto, canzoni ed immagini e si è messo da parte, non si è intromesso.

Sapeva che l’avresti girato così?

TH: Si ed era l’unica maniera in cui avrebbe detto di sì a qualcuno, non era interessato ad un biopic tradizionale.

Cosa rappresenta nella tua vita Bob Dylan?

TH: La ragione per la quale non si può rispondere a questa domanda è il fatto che si possono dare solo molteplici risposte, lui è una persona che ha definito gli anni ‘60 e che ne è stato definito ma ha rifiutato di rimanere fermo, ha rifiutato un’identità ad ogni passo, rigettandola. Ogni volta che arrivava un grande successo sentiva come una morsa, e doveva rispondere uccidendo il precedente Dylan.
Così questo Dylan che interpreta Cate Blanchett è quello del 1966, l’omicida del Dylan interpretato da Christian Bale, quello folk ortodosso che dice di avere la risposta a tutto mentre questo rifiuta di avere una risposta a qualsiasi cosa.

Cosa hai chiesto a Cate Blanchett? Di imitarlo e studiarlo o l’hai lasciata libera? Perché è stupefacente quanto lo ricordi

TH: Le ho mostrato clip di Dylan da quel periodo perchè già il Bob Dylan del ‘66 è diverso da quello del ‘65. Era magrissimo, saltava sul palco, si faceva di anfetamine e usava strumenti elettrici.
Questo Dylan qui è forse il più noto e lo shock di quel che le persone hanno visto all’epoca l’abbiamo dimenticato, quindi cercavo un elemento che potesse shockare anche noi, da cui l’idea di farlo interpretare ad una donna. C’è una strana androginia in quel periodo ma quando Cate l’ha visto l’ha centrato subito.

[CLIP da L’eclisse di Antonioni]

Ti abbiamo chiesto di scegliere una clip e hai voluto questa. Perchè Antonioni e perché proprio questo film?

TH: È un film che ho visto di recente per Carol e c’è qualcosa in Monica Vitti che mi ricorda Cate. Anche lo stile dei vestiti che indossa è stata un’ispirazione per il suo abbigliamento in Carol. Ma credo ci siano pochi registi che possono guardare ad un film come L’eclisse e non rimanere meravigliati dal linguaggio visivo o dall’osservazione della vita moderna e del suo vuoto esistenziale.

Ami anche gli altri film di Antonioni?

TH: Si.

E ritieni che in Carol, al di là dei costumi, ci sia qualcosa che ti ha ispirato nel raccontare la vita, l’esistenza e la solitudine?

TH: È più che altro l’idea della mancanza di libertà di movimento che senti in questi film di Antonioni. Alla fine non somigliano a Carol ma la maniera in cui le scene sono giocate con la camera in anticipo e la maniera in cui lo spazio è definito sono così straordinarie e specifiche erano le stesse che io e Ed Lachman [il direttore della fotografia del film ndr] cercavamo.

[CLIP da La paura mangia l’anima di Fassbinder]

Non mi dire che questa scena non ha influenzato Lontano dal paradiso….

TH: Sirk fece un film nel ‘56 chiamato Secondo amore con Rock Hudson e Jane Wyman, era il film che preferiva tra i propri e uno degli esempi perfetti di melodramma hollywoodiano, la storia di un donna vecchia e vedova che incontra e si innamora di un giovane giardiniere. Quell’amore crea un panico, un panico sociale intorno a loro perchè trasgrediscono la morale del tempo, Fassbinder ha preso quell’idea e fatto questo film nel 1974 trasformandolo nella storia di una domestica vedova della working class che si innamora di un turco di colore più giovane di lei. È la storia più semplice del mondo ma come vedete anche in questa scena [quella in cui Alì la invita a ballare nel locale ndr], quel che accade al mondo intorno a loro sta tutto nell’aggressività degli sguardi che il loro amore si attira. Fassbinder era parte di una generazione di filmmakers politici di fine anni ‘60 e i suoi primi film erano film politici poi conobbe Douglas Sirk e la sua idea su quel che un film può fare cambiò. Disse che le storie più semplici erano le più vere ma in un linguaggio completamente diverso da Werner Herzog, Godard o gli altri della generazione post marxista. Quindi chiaramente questa tradizione di raccontare storie che diventano critiche sociali ma sono ambientate in mondi socialmente molto rigidi è qualcosa che mi ha influenzato e si vede spesso nel mio lavoro, da Safe a Lontano dal paradiso a Mildred pierce fino a Carol.

[CLIP da Breve incontro di David Lean]

Perché hai voluto la clip iniziale di questo film?

TH: Quel che accadde qui è che la coppia che ci pare stare nello sfondo si scopre essere quella protagonista, e non quella che stiamo seguendo nella scena. A quel punto passiamo da un’altra parte e realizziamo che il film sarà su di loro mentre all’inizio sono quasi delle comparse. Il film stabilisce il suo punto di vista in questa maniera così elegante. Quando ho letto la prima versione di Carol ho pensato che sarebbe stato molto bello stabilire la narrazione chiedendoci di chi sia la storia del film.

Tornerai a parlare della musica rock per chiudere una possibile trilogia?

TH: Non ho un piano per un film sul rock ma ho un progetto su Peggy Lee la grande jazzista di metà secolo che sto sviluppando con Reese Witherspoon, sarà una nuova esperienza per me e non vedo l’ora di buttarmici.

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