Strade Violente (Thief in originale, titolo ben più azzeccato) è però effettivamente un film di strada e di strade che si incrociano. Quelle di finzione, ovviamente, ma anche quelle reali. Due in particolare segnano il mito nella storia del cinema: quella di Michael Mann e James Caan. Quanto si influenzeranno in bene i due!

L’attore si trovava in una profonda crisi personale. Dal 1982 al 1987 non aveva interpretato alcun film, depresso per la morte della sorella, consumato dall’abuso di sostanze. Una carriera che sembrava al termine, arenata in ruoli sempre uguali e in aspettative sempre più limitate dai produttori. Il film sarà un toccasana, un rilancio agli occhi del pubblico come performer ancora capace di sorprendere. Un ruolo sentito, in cui Caan mette anima e corpo in una delle sue interpretazioni più riuscite.

Il viaggio nel mondo del cinema di Michael Mann stava invece per iniziare, proprio con l’incrocio decisivo di Strade Violente. Il suo primo lungometraggio, La corsa di Jericho, non riuscì a superare lo schermo televisivo. Strade Violente fu quindi nel 1981, esattamente 40 anni fa oggi, il suo esordio al cinema. Non si limitò a lanciare il regista come autore, ma fu un’opera che cambiò le regole del gioco. Un neo noir fatto di gente che sa cosa fare e da gente che conosce il mestiere (del cinema).

Basta guardare i personaggi: professionisti, per quanto illegali, che conoscono il proprio lavoro e i trucchi del mestiere. Lo si vede dal modo in cui maneggiano gli oggetti, da come parlano e dalla freddezza con cui compiono le proprie azioni. Fu un punto di non ritorno. Christopher Nolan, ad esempio, muove oggi i propri attori come Mann fa con Frank nella splendida sequenza di apertura (e soprattutto come nel successivo Heat – La sfida). Allo stesso modo Drive di Refn è figlio della notte al neon da cui nascono le ombre. E sono solo due esempi tra i più clamorosi. Mann compone le inquadrature partendo dal nero, e da lì disegna con la luce, tira le linee di prospettiva che si perdono nell’intricata metropoli. 

Fu un film impossibile da ignorare, che rilanciava il neo noir in un senso realistico. Si ritrovano personaggi plausibili, uomini veri (nel senso di tridimensionali) che riguardano la propria esistenza senza riuscire mai a cambiarla. Un determinismo talvolta velato da un’aura di pessimismo, a volte con piccoli sprazzi di speranza.  

La trama è semplicissima, i rapporti invece molto complicati. Frank vuole uscire dal giro dei colpi di alto prestigio. Ha un socio (Jim Belushi) e un suo modo preciso di agire. Una sua etica e un progetto per la sua esistenza. Quando un committente gli farà intuire la possibilità di un’ultima impresa ad alto guadagno, Frank la intraprende con la speranza di uscire dal giro per una vita tranquilla. Intorno a questa idea si palesa però un film che usa il dramma quasi in senso amletico, che parla di persone, ancora prima che di criminali. E lo fa con un inedito realismo e una durezza non tanto grafica quanto emotiva. 

Frank sa fare il suo lavoro di ladro, non agisce come se stesse compiendo un’attività illecita. Al contrario le sue mani si muovono come chi fa la stessa professione da anni. Un esperto, quasi annoiato dalla propria professione. Allo stesso modo del protagonista anche Mann e Caan conoscevano bene la realtà che andavano a raccontare.

Come ricordato da The Ringer James Caan si preparò alla parte addestrandosi alle armi con tiratori professionisti. Era infatti essenziale che sapesse maneggiare le pistole come una persona che le ha avute tra le mani per tutta la vita. Così come doveva essere credibile scassinando, per cui passò molte ore ad imparare il mestiere da un ladro “di professione”. La regia non fa un passo indietro, non trova scorciatoie, ci porta letteralmente dentro gli ingranaggi in inquadrature impossibili. Un cinema viscerale, che non si allontana mai. Apprezza il gesto, si sofferma sui disegni geometrici tanto che l’elettronica e i cavi prendono la forma di grovigli e oggetti incomprensibili. A chi guarda, certo, ma non a chi li maneggia nel film.

La cosa che più colpisce di Strade Violente è il modo in cui i colpi di pistola deformano il volto in segno di dolore, come ci siano sempre conseguenze durissime e non solo fisicamente, ma sulle scelte di vita e sulle persone che circondano il protagonista. Difficile trovare oggi in Hollywood un rigore tale.

Michael Mann ama la notte in maniera sensuale e sensoriale. La tiene sempre in primo piano a schiacciare i personaggi in un labirinto di forme. Impossibile scappare. C’è un qualcosa di cyberpunk nel modo in cui le strade diventano un organismo che inghiotte. Proprio come Frank, formato dallo stato e poi abbandonato, così la città dà vita e ammazza, crea i singoli e li affoga nell’anonimato. Un amore per la notte, quello di Mann, che deriva dagli anni dell’università passati a guidare nel buio di Chicago. Hanno plasmato una persona che ne conosce nel dettaglio il sapore, l’umidità, i suoni così poetici e al contempo inquietanti.

Strade Violente cambia anche il modo in cui si parlano i personaggi dei film dei criminali. Non possono permettersi di parlare per contrazioni – e quindi non capirsi – spiega il regista raccontando i dialoghi del film. E quindi ha lavorato sugli accenti e la pronuncia delle parole adattandole alle situazioni. I botta e risposta sono pieni però di non detti o di allusioni che possiamo sfiorare. Come l’ambiguità dello scambio tra il giudice e l’avvocato. C’è un mondo dietro, con delle regole sue e dei rapporti di forza ben precisi che non conosciamo, ma intuiamo solamente. 

40 anni fa Strade Violente si preparava a non invecchiare, ma soprattutto a dimostrare che l’azione può raccontare una filosofia. Che la vita ai margini delle metropoli, quella sporca e segreta dei criminali, porta a interrogarsi sul senso della stessa ben più di quelle convenzionali. 

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