È la stagione del grande ritorno di Il talento di mister Ripley. Su Netflix è arrivata l’importante miniserie con Andrew Scott, Ripley, nuovo adattamento del romanzo di Patricia Highsmith. Sul finire del 2023 Saltburn ha preso una trama estremamente simile e ha fatto una versione aggiornata del film del 1999 di Anthony Minghella. Un omaggio non dichiarato, ma sicuramente non casuale. Fennell ha attinto a un film che ha saputo colpire in passato, ma che è invecchiato nella sua capacità di conquistare le nuove generazioni. Il talento di Mr. Ripley è una storia che ritorna di tanto in tanto. Già il film del 1999 era il secondo adattamento, il primo fu Delitto in pieno sole di René Clément. Un remake sia in forma seriale che di opera-omaggio, 25 anni dopo, ha sorprendentemente molto senso. 

Eppure la pregevole fattura di Saltburn non è riuscita a eguagliare i sottili brividi e quel senso di proibito della trasformazione più celebre di Thomas Ripley. Le ragioni sono molteplici.

L’Italia che non esiste è comunque una grande ambientazione 

Uno si svolge in un “non luogo“. Una villa che sembra però appartenere al regno della magia e del sogno. Un castello delle fiabe da cui è meglio fuggire, ma verso cui il protagonista è inesorabilmente attratto. L’altro in un punto ben radicato nello spazio e nel tempo. I luoghi de Il talento di Mr. Ripley sono infatti molto più tangibili. Non sono granché. Ci sono le case delle persone con i soldi, le crociere, il lusso, ma soprattutto c’è un’Italia totalmente idealizzata da chi la guarda (e la filma) da lontano

Un luogo dove Fiorello è un mattatore (questo glielo concediamo), ma soprattutto dove tutto il paese lo segue nell’energia festaiola. Una terra che ha generato diversi Casanova e che fa venire voglia alle donne di amore passionale. Non ci sono i bellissimi colori della fotografia di Saltburn, le statue e i giochi con le geometrie, ma la fotografia molto più concreta rende questa storia di doppi e di maschere più plausibile. 

Una provocazione che esplode contro una che si attende 

Saltburn è un film fin troppo tronfio delle sue trasgressioni (nulla di mai visto prima). Le mette in scena come se fossero la cosa più importante. Indugia nella scena della vasca. Indugia sul ballo nudo che chiude il film con il chiaro intento di rendere memorabile un’operazione che invece non lo è. Il tema del vampirismo sociale e fin troppo esplicito. Lo si vede nella passione per il sangue – e per altri fluidi corporei – di Oliver Quick. 

Le figure demoniache, la sfida tra angeli – presunti tali – e demoni sembra la promessa costante di una provocazione o di un elemento dissonante che si attende e si desidera. Il talento di Mr. Ripley, al contrario, ha un senso di decadenza soprattutto psicologico. Le azioni violente sono trattenute fino all’esplosione drammatica. Mai estetica. 

Il talento di Mr. Ripley

Lo scambio di ruoli, il mantenere la maschera, sono fatica, sofferenza e perversione sempre tutelata dalle convenzioni sociali. Il film parla come siano i modi a fare il nobile. Gli atteggiamenti dell’alta società, i rituali e le abitudini, i modi d’essere, possono essere assimilati e imitati per avere una chiave d’accesso verso un mondo che opera secondo regole sue.

In entrambi i film a venire giudicata è solo la copertina del libro, ovvero di Thomas e Oliver per come si presentano. Ma ne Il talento di Mr. Ripley il thriller si innesca da un equivoco. Tom è un pianista bravo, ma che non avrà mai fortuna con i mezzi propri, viene ingaggiato da Greenleaf, un ricco imprenditore che lo scambia per un compagno di classe del figlio. Lo paga per raggiungerlo e convincerlo a tornare negli Stati Uniti. Ripley sta al gioco, e si immerge fino ad affogarne. 

In Saltburn la prospettiva è più moderna. Oliver già è un rampollo di successo. Ha (relativamente) umili origini, ma è stato ammesso all’Università di Oxford. Non gli basta. I due deliri di un ego incontenibile sono simili, ma partono da esigenze diverse. Il primo è narcisismo. Il secondo è fame di potere.

La falsità dell’identità

Ciò che funziona di più né Il talento di Mr. Ripley è proprio l’idea camaleontica alla base. La capacità trasformista del suo protagonista che si finge chi non è, entra in una classe sociale non sua e diventa padrone del suo nuovo destino, della sua nuova identità. Il mantenimento di questa comporta un susseguirsi di bugie sempre più grosse. L’idea è che ciò che siamo e come veniamo percepiti all’esterno, vero o falso che sia, è una forza che si espande sempre di più. Un filo che incontrando altri fili, cioè altre persone, si intreccia e diventa più grosso, più complesso, col rischio di strapparsi. 

Il talento di Mr. Ripley è una riflessione sui ruoli e sulle parti della vita che appartiene molto al cinema dell’epoca. Il cinema post moderno di Saltburn racconta la stessa cosa in maniera coerentemente più disillusa. Il gioco di maschere viene svelato relativamente presto, ma quello che importa per i personaggi di Fennell non è tanto provare a costruire un nuovo sé più appagante (come per Minghella) bensì trovare un modo assimilarsi, da corpi estranei, in un organismo sociale a cui non si appartiene.

Perché Il talento di Mr. Ripley è tornato di moda?

Neanche a livello di performance attoriali i due film si equivalgono. Barry Keogan è grandioso in Saltburn. Forse anche meglio di Matt Damon. Jacob Elordi non ha la stessa capacità di Jude Law di sedurre con uno sguardo o un movimento. Uomini, donne, spettatori. Magnetico. 

Gli eccentrici Rosamund Pike e Richard E. Grant non riescono ad essere disturbatori di trama quanto Freddie Miles di Philip Seymour Hoffman. Lui riesce a ricreare quella particolare emozione di quando si desidera che il personaggio scopra qualcosa che porterà avanti la trama in maniera drammatica, ma al contempo è così irritante da farci stare dalla parte di Ripley.

Il talento di Mr. Ripley vince su Saltburn proprio grazie alla sua misura, alla scelta di non strafare che gli permette di essere paradossalmente più efficace. La domanda resta però un’altra. Come mai c’è stato un ritorno di questo modello di trama? Sembra un passo indietro rispetto all’ossessione che accompagnato il cinema nel nuovo millennio: la riflessione sulla struttura narrativa stessa.

Prima i personaggi si chiedevano: “Chi sono io?”. Ora la domanda è: “Che ruolo ho in tutto questo?”. La modernità di Ripley sta proprio nel suo talento. Ovvero nella capacità di essere un personaggio che mette in discussione la propria identità, ma anche uno sceneggiatore capace di scrivere da sé la sua storia.

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