Un’operazione come quella di Dante di Pupi Avati dovrebbe ricevere i finanziamenti del Ministero dell’Istruzione e del Merito. È un libro di testo, più che un film. Uno strumento nelle mani dei docenti che possono proporlo agli studenti prima di iniziare il programma di studi danteschi. Avati parte dal suo stesso libro, L’alta fantasia, per imbastire una sceneggiatura che ha proprio la distanza di un uomo del nostro tempo che riflette su Boccaccio che, a sua volta, riflette su Dante. Ci sono dentro tante informazioni, molte date per scontato, ma poche riescono a contribuire realmente a creare un biopic vero

Due piani temporali. Nel 1350, a trent’anni dalla morte, Dante Alighieri riceve il perdono dalla città di Firenze. Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) parte alla ricerca di Suor Beatrice, ovvero Antonia Alighieri, figlia del Sommo Poeta. Durante il viaggio parla, pensa e ripercorre la vita di Dante in flashback. 

Il giovane Dante è innamorato pazzo di Beatrice, gli incontri (il primo molto giovane, poi da ragazzo) sono ripresi con incredibile enfasi letteraria. Destinato a un amore mai profondo con Gemma Donati, il poeta rimugina – insieme al suo finto naso prostetico – e si duole. 

Il film continua più o meno tutto così, portando avanti le due storie in parallelo senza riuscire quasi mai a fare in modo che il loro incontro dia vita a una prospettiva nuova su uno dei nomi più analizzati di sempre. 

Nel mezzo del cammin di nostra vita…

Una delle idee più interessanti è quella di vedere al contrario il viaggio dall’inferno al paradiso. Qui si parte dalla morte, da una situazione di pace, per tornare al contrario nell’inferno dell’esistenza. Avati rappresenta la poesia e l’ingegno letterario come un qualcosa di fisico e doloroso, che fa soffrire. La poesia è un darsi alla carta. Chi si fa tramite di intuito poetico si consuma per assolvere a questa funzione.

Una prospettiva che, al posto di venire sviluppata, viene costellata da una recitazione affettata e un andamento da fiction Rai. Dante Alighieri è ovunque nel cinema. Il primo film sull’Inferno risale al 1911, le trasposizioni secche della Divina Commedia ci sono, anche se non sono tantissime. Anche senza traduzioni dirette, si può però ritrovare le sue visione in un’infinità di opere. I suoi mostri, le sue creature e il suo sistema universale hanno innervato intere immaginazioni. Dal paradiso di  Al di là dei sogni al purgatorio in Coco, passando per i vari inferni dell’horror. 

Fa rabbia allora come Avati non riesca a costellare questo andamento piatto con delle immagini almeno vagamente accattivanti. Beatrice si mangia il cuore di Dante. Un po’ Khaleesi, un po’ Il racconto dei racconti. Solo che fatto peggio. Ci sono sequenze poi di involontaria comicità; come la sottotrama della bambola nuziale recuperata da Boccaccio per consegnarla a Violante, la sua ultima figlia. Ha il volto solcato da crepe, è fatta di legno. Quella bambola è stata di Beatrice, è un segno di fertilità. Provoca un gran daffare. Quando però lo stralunato Castellitto la consegna alla bambina, questa ne è inorridita e la seppellisce con schifo. Sarà simbolico, ma non può non strappare una risata vedere un regalo così maltrattato. Un oggetto, tra l’altro, vicino all’immaginario gotico di Avati e quindi pieno di potenziale. Che peccato!

Dante recensione

Altro mostro di questo film: forse nella tradizione boccaccesca, c’è una scena articolata intorno ai bisogni corporali. Solo che è un dialogo serissimo che si svolge mentre i personaggi stanno defecando pronunciando frasi solenni! Tutto è ammantato da questa serietà didattica che non viene seguita però dalla messa in scena. C’è solo l’inseguire un immaginario antico sbagliato, pigro e poco cinematografico. Persino il momento in cui Dante ascolta la storia di Paolo e Francesca da un soldato e si commuove non arriva allo spettatore con una frazione dello stesso sentimento che prova il poeta-personaggio. 

… A riveder le stelle

Insomma, Dante di Pupi Avati è un po’ una sofferenza da vedere, in cui tante cose che potevano dare profondità alla storia sono ricondotte alla dimensione di uno sceneggiato. Un girone per lo spettatore? Forse sì. Ma sul finale, senza farsi annunciare e con un graduale passaggio verso la sapienza cinematografica, Avati riesce a trovare momenti di estasi cinematografica. Intuizioni vere, da grande regista. La più bella: l’affresco di Andrea di Bonaiuto che parla, prende vita nelle immagini del film e fa accedere realmente a una dimensione fantastica. Oppure quell’attimo di sospensione mistica sul finale in cui la spiritualità prende forma nelle lucciole che si innalzano come stelle all’altezza degli occhi degli uomini.

Sono momenti grandiosi in un film pieno di sbagli e cadute, in cui poco riesce ad arrivare come voleva il suo regista, sempre si avverte l’intenzione, quasi mai il risultato. Vedendo quest’opera che ruota intorno al dolore artistico, ai passaggi di testimone della poesia, ai successori e alle eredità, viene da chiedersi se Pupi Avati, più o meno consapevolmente, ci stia dicendo che anche lui, a questo punto della sua carriera è alla ricerca di un erede.

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