Questo speciale su Driven fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla vita l’ho imparato da Sylvester Stallone

C’è un solo modo per parlare di Driven senza scadere nelle solite considerazioni che accompagnano uno dei più clamorosi tonfi – commerciali e di critica – della carriera di Sylvester Stallone, un film diretto tra l’altro da un autore il cui talento è pari alla sua discontinuità, e la cui capacità di perdere soldi al botteghino l’ha reso da anni una leggenda anche più di quanto si meritasse (in entrambi i sensi). Questo modo è ricordarsi che si tratta di un film non solo interpretato ma anche scritto e fortemente voluto da Stallone: una storia a forti tinte autobiografiche nella quale si trovano già tracce di discorsi che Sly approfondirà anni dopo in Creed – uno su tutti, imparare a capire quando la vita ti sta chiedendo di non essere più un leader ma un follower e di farti da parte (che incidentalmente è un po’ l’opposto del discorso su che Tom Cruise sta portando avanti su sé stesso tramite Mission: Impossible).

Driven Memo

Visto da questo punto di vista, come una sorta di prova generale di quello che poi Sly metterà in scena con il suo personaggio più famoso, Driven è un’opera quantomeno interessante, e che è sicuramente servita al suo ideatore per limare quegli eccessi che rendono il film di Renny Harlin una sorta di gigantesca telenovela ambientata sullo sfondo di un giro del mondo in ottanta coloratissime corse. Perché se c’è qualcosa su cui chiunque, fan del film o meno, può concordare senza fatica è che Harlin e Stallone hanno avuto la mano pesante come il piombo, a tutti i livelli di lavorazione.

Partiamo dalla scrittura: Driven è un film opulento e il cui messaggio centrale si sarebbe potuto far passare anche con parecchie sforbiciate quando non direttamente con il taglio di una o due storyline. L’esempio a cui guarda, trattandosi di film sportivo, è ovviamente Rocky. Ma dove la saga di Balboa ha sempre costruito il proprio ricco ecosistema intorno alla figura del pugile, Driven tenta una strada più corale, lungo la quale è difficile capire chi sia il vero fulcro della narrazione. C’è ovviamente uno scopo finale, un obiettivo che è quello di vincere il campionato americano di open wheels, che si snoda lungo venti corse in giro per il mondo; e ci sono, in teoria, i due contendenti, il rookie Jimmy Bly e il veterano Beau Brandenburg, che si sfidano fino all’ultima curva per aggiudicarsi il titolo.

Brum brum

Ma, per esempio, la scrittura è abbastanza vaga da non chiarire mai chi dei due sia il vero protagonista: Driven continua a oscillare tra l’uno e l’altro ingannandoci a ogni curva, che potrebbe essere una scelta interessante se fosse gestita con più criterio e non generasse solo tanta confusione. Anche perché c’è ovviamente anche Stallone, il vero veterano, ritornato in pista su richiesta del suo vecchio capo (Burt Reynolds) con il compito di fare da mentore al giovane Jimmy. Automaticamente viene da tifare per lui e da spostare tutta l’attenzione sul suo personaggio, un po’ perché Driven è un film che si presenta con Stallone in locandina e quindi con certe aspettative, un po’ perché, con tutto il rispetto per Kip Pardue e Til Schweiger, ogni volta che Sly è in scena il resto del cast viene messo in ombra, e non è difficile spostarsi dalla sua parte e vedere la vicenda Bly/Brandenburg dal punto di vista del reduce di mille battaglie che guarda due giovinastri che si fanno i dispetti. Giusto Reynolds (e Gina Gershon nei panni dell’ex moglie) riescono a reggerli la scena: il resto del cast viene schiacciato dal suo carisma, e diventa ancora più difficile capire dove Driven voglia andare a parare.

Jimmy Bly

Perché alla fine il vero, grosso problema del film è che, nel suo cercare di essere il più neutrale possibile, finisce con l’accontentare tutti i suoi personaggi, scontentando però così il pubblico. Per essere un film nel quale i protagonisti rischiano la vita a ogni curva, Driven è sorprendentemente innocuo, quasi supereroistico nel modo in cui riveste i suoi personaggi di un’impenetrabile plot armor che neanche un’esplosione può perforare. E di esplosioni ce ne sono a bizzeffe, perché se c’è una cosa che Renny Harlin non sa fare è contenersi.

E quindi Driven si trasforma spesso in un circo, in un Die Hard 2 con le macchine, pieno di veicoli che solcano il cielo e prendono fuoco all’istante, trucchetti visivi che a colpi di brutta CGI tradiscono anche l’età del film, e la solita, generosa quantità di slo-mo che ci permette di apprezzare meglio ogni singolo dettaglio di questa gloriosa tamarrata. È tutto eccessivo in un modo che solo Fast & Furious proverà a replicare: è un giro del globo, e ogni nuova corsa è accompagnata dal suo bel montaggio di fan, paesaggi locali e ragazze poco vestite che muevono la colita. È un film nel quale il mentore Sly e l’allievo Pardue appianano le loro divergenze non con un sobrio incontro di boxe, ma in questo modo:

E ancora non siamo entrati nel dettaglio del lato “telenovela” del film. Non lo faremo se non superficialmente, ma insomma, Driven è anche la storia di un triangolo amoroso che coinvolge i due rivali e la povera Estella Warren, strattonata dall’uno all’altro per tutto il corso del film e vero ago della bilancia anche del campionato. Ma è anche la romantica e sussurrata storia di un amore più adulto e meno impetuoso, quello che scocca tra Sly e la giornalista che segue da vicino la sua squadra (Stacy Edwards). C’è tanta, tantissima soap opera anche nelle scelte estetiche di Harlin, con molte scene d’amore che grondano di dissolvenze incrociate e sguardi persi verso l’infinito.

Insomma, Driven è il trionfo del cattivo gusto. È interessante per i filologi stalloniani, perché è uno dei primi film nei quali Sly si scrive un personaggio che sta da parte per fare largo ai giovani. È anche, volendo, una storia kurtcobainiana che parla di come il successo possa darti alla testa se non sei equipaggiato per gestirlo. E soprattutto, se vi piacciono queste cose, è irresistibile nella sua pacchianeria. Brutto? Forse sì, ma vi sfidiamo a non divertirvi.

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