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Quarantasette anni fa, Stephen King pubblicò sulla rivista Cavalier un racconto intitolato The Lawnmower Man, Il tagliaerbe, che parlava di un tizio che ingaggiava un giardiniere che si scopriva poi essere un adoratore di Pan che lavora nudo e ha una certa passione per i sacrifici rituali. Qualche anno dopo, Brett Leonard scrisse la sceneggiatura di un film intitolato Cybergod, che parlava di un tizio che di mestiere fa il tagliaerbe e che viene addestrato tramite realtà virtuale fino a diventare un’entità superintelligente e ai limiti della divinità. Avete notato il dettaglio in comune tra queste due storie? Esatto: in entrambe c’è, da qualche parte, un tagliaerbe, inteso come la macchina ma anche come la persona che la controlla. Come sia venuto in mente a Leonard e al produttore (e co-sceneggiatore) Gimel Everett di usare questo microscopico particolare per trasformare il loro Cybergod nel “film tratto dal racconto di Stephen King” resterà sempre un mistero, che ha visto la luce esattamente trent’anni fa, e che da allora, ahilui, è invecchiato più rapidamente di quanto credesse.

Stephen King, autore di Il tagliaerbe, odia Il tagliaerbe, al punto da aver intrapreso (e vinto) una battaglia legale contro la produzione per far rimuovere il suo nome dai credit. Non stiamo parlando di un caso-Shining: Il tagliaerbe di Brett Leonard non ha nulla a che vedere con il racconto omonimo, ed è comprensibile che King se la sia presa (anche perché al tempo non fu interpellato sulla faccenda). Se fosse andato oltre il fastidio, però, avrebbe scoperto un film che, pur non basandosi sulle sue parole, ha una profonda anima kinghiana. E non parliamo solo della presenza dello Shop, l’organizzazione segreta militare paragovernativa complottista già vista in L’incendiaria (cioè il romanzo senza il quale non esisterebbe Eleven di Stranger Things, ma questo è un altro discorso) e Tommyknockers; Il tagliaerbe riesce a replicare quella particolarissima forma di orrore kinghiano che si nasconde nella quotidianità, cresce lentamente ed esplode solo quando ormai è troppo tardi, oltre a quell’altra particolarisissima forma di orrore kinghiano che prevede che i veri mostri siano le persone apparentemente normali (si veda il prete interpretato da Jeremy Slate).

Il tagliaerbe VR

Stephen King, però, raramente se non mai si è occupato di tecnologia, sicuramente non di tecnologia del futuro. La sua opera è popolata di macchine che impazziscono e ammazzano gente, addirittura il suo primo film da regista è una storia di camion assassini che assediano una stazione di servizio; ma a King piacciono le macchine fisiche, i macchinari, gli ingranaggi, la puzza della benzina, l’analogico. Non si è quasi mai addentrato nel campo del (passateci la semplificazione) virtuale, nel mondo dei computer e di Internet e delle realtà digitali. Al contrario Il tagliaerbe era, e rimane ancora oggi trent’anni dopo, un film pionieristico, che come tutti gli horror che si rispettino mette in guardia contro qualcosa, e come tutti i film di fantascienza che si rispettino mette in guardia contro qualcosa che ancora non esiste, un’utopia futuribile.

Questa utopia si chiama realtà virtuale, quella con il caschetto e guanti aptici, una tecnologia che all’inizio degli anni Novanta, quando il film venne scritto, era ancora a uno stadio che è generoso definire embrionale. Certo, i caschetti per la VR esistevano già dalla fine degli anni Settanta, ma fino a quel momento erano stati utilizzati solo dalla NASA, e al di là dei loro limiti tecnologici erano comunque ben lontani dal poter essere alla portata di tutti. L’inizio degli anni Novanta, però, era anche foriero di promesse che fino a pochi anni prima sembravano fantascienza: nel 1992 Computer Gaming World dedicò un approfondimento al fatto che entro il 1994 sul mercato sarebbero comparsi i primi visori VR a prezzo di mercato.

Jobe

L’idea era quella che, grazie a questi strumenti del demonio, l’umanità avrebbe aperto finalmente la porta su un’infinità di mondi possibili, e abitabili senza rischi da chiunque. Il tagliaerbe è stato, in questo senso, il primo vero horror cyberpunk della storia del cinema: un film fatto per anticipare i problemi, per mettere le mani avanti e dire “guardate che questo è quello che rischiamo se abusiamo di questa novità”. La storia è quella di un, diciamo così, sempliciotto che diventa soggetto di studi ed esperimenti sul miglioramento delle capacità cerebrali grazie all’uso di VR (con un certo anticipo su Matrix, peraltro), e che nel corso del processo subisce una trasformazione esistenziale che lo porta a trascendere la sua forma fisica e a diventare come Scarlett Johansson alla fine di Lucy, o come Johnny Depp in Transcendence, tanto per fare due paragoni con film simili ma infinitamente peggiori di Il tagliaerbe.

Capirete che sulla carta il film di Brett Leonard vola altissimo, sulle ali dell’high concept e della filosofia tecnoesistenziale di stampo dickiano-gibsoniano. Il suo problema è il fatto che da allora sono passati trent’anni, e la realtà virtuale ha fatto passi da gigante – meno di quanto si sperasse, ma più di quanto si potesse immaginare nel 1992. E questo ha portato naturalmente a un invecchiamento precoce del film, e non solo perché gli effetti speciali fatti da quella che poi diventerà Rockstar San Diego stanno svariati gradini evolutivi indietro rispetto a, per dire, Joe Razz. No, il vero problema di Il tagliaerbe è un altro: l’incapacità di immaginarsi una realtà virtuale significativa, che vada oltre l’idea di indossare un casco e non vedere più la stanza intorno.

Jobe Angelo

Ripetiamo, non è solo una questione di fisiologico invecchiamento degli effetti digitali. Il tagliaerbe parla di “mondi simulati indistinguibili da quelli reali”, ma poi imbastisce una realtà virtuale che non è altro che un normale gioco da sala giochi giocato con un caschetto: lunghi corridoi nei quali ci si sposta a gran velocità sparando a ogni cosa che si muova, quando la promessa del film è quella di vere e proprie second life. Più che sui pericoli della virtualizzazione della realtà, Il tagliaerbe sembra voler mettere in guardia contro quella che qualsiasi videogiocatore compulsivo riconoscerà come “la chiusa”: quel momento in cui passi più tempo a fissare lo schermo che a mangiare, guardare fuori dalla finestra, comunicare con il mondo esterno.

Certo, con il passare dei minuti e l’aumento dei poteri di Jobe il film assume un’aria sempre più apocalittica e classicamente horror; ma i rivoluzionari esperimenti del dottor Angelo sembrano esistere più che altro per dar modo a sua moglie, la voce della ragione, di lamentarsi perché “stai sempre incollato al computer e non mi porti mai fuori!”. Se invece della VR ci fosse una qualche droga, ma anche se Jobe venisse addestrato al combattimento da uno scafatissimo veterano di guerra che lo rende imbattibile, i risultati sarebbero gli stessi, e Il tagliaerbe sarebbe comunque la storia di un tizio che viene trasformato in un’arma senza considerarne le conseguenze. È un film sulla realtà virtuale nel quale la realtà virtuale è, in ultima analisi, uno degli elementi meno importanti, una gimmick più che il cuore del film.

Stiamo dicendo che se Leonard ed Everett avessero fatto uno sforzo di immaginazione e provato a trattare la VR non come una bestia pericolosa da tenere a bada ma come uno spazio di possibilità Il tagliaerbe si sarebbe potuto elevare da ottimo thriller/horror a simbolo e profezia. D’altra parte il film successivo di Leonard, Virtuosity, faceva proprio questo salto concettuale, e il risultato è che incassò 37 milioni a fronte di un budget di 30: è possibile che ci fosse un ragionamento dietro al relativo scarso coraggio di Il tagliaerbe. Che comunque, ci teniamo a ribadirlo, non toglie nulla al valore del film (del quale vi consigliamo, se potete, di recuperare la director’s cut da 2 ore e 20).

Al limite ci porta a porci una domanda: visto tutto quello che è successo con la VR dal 1992 a oggi, è forse arrivato il momento di un remake?

Questo speciale è realizzato in partnership con Minerva Pictures

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