2 Fast 2 Furious è ancora un film in cui le macchine vanno in linea retta, ma guadagna una dimensione in più: questa volta saltano!

Come scrivevamo raccontando il primo capitolo della saga, il concetto attorno a Fast and Furious era molto semplice: macchine velocissime, gare clandestine, un percorso dritto. In mezzo a quella strada tutta la vita, i rapporti e le rivalità tra i personaggi.

Il seguito, 2 Fast 2 Furious, è ricordato più come il film della saga senza Vin Diesel, che per i suoi meriti effettivi. Come il primo anche qui siamo dalle parti di Point Break. Si toglie però tutto l’aspetto sportivo della vicenda, in cui le vittorie alle corse non sono più un fatto di orgoglio o di fiducia, ma servono per infiltrarsi nel covo dei cattivissimi.

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Un pretesto che regge ancora e che garantisce qualche ora di divertimento senza grande sforzo. La grande sbandata della produzione fu però credere che il protagonista della saga fosse Paul Walker e non Vin Diesel! Quest’ultimo ha sempre messo tutte le sue ambizioni autoriali (eh sì) nella saga credendoci così tanto da sembrare un po’ parodia di se stesso (come quando disse che Fast & Furious 7 meritava di vincere l’Oscar). Diventerà palese qualche film dopo che è lui ad incarnare lo spirito della saga, mentre Walker altro non è che una spalla.

Le motivazioni addotte al rifiuto dei 25 milioni di dollari per riprendere il ruolo di Dominic Toretto sono esilaranti, ma anche tenere, per certi versi. Diesel considerava il primo film un classico come Gioventù Bruciata e temeva che lo studio potesse spremere l’idea per fare un sequel non all’altezza e rovinare quindi il lavoro fatto fino ad ora. Voleva che si applicasse un approccio alla Francis Ford Coppola (sic!) per il seguito. Ovvero dare spessore alla storia e alla psicologia dei personaggi in una continuazione diretta. Ebbene sì, come Il Padrino parte II.

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Ironico che non si sia fatto lo stesso tipo di problemi qualche anno dopo, quando il franchise si è trasformato in un qualcosa che tutto sembra tranne che una continuazione del primo film. Si dice però abbastanza pentito di non avere combattuto di più per una revisione della sceneggiatura di 2 Fast 2 Furious in modo tale che potesse includere Dom Toretto in maniera soddisfacente. 

Lo studio aveva scritto infatti due versioni della storia, una con i due protagonisti del precedente film (nel caso Diesel avesse accettato), e una con il nuovo personaggio di Roman Pearce. Quella che abbiamo visto sullo schermo.

Bisogna dargli atto: quello non era un periodo facile per i sequel. Nel 2003 ancora il concetto di continuazione della storia era sinonimo di raddoppiare tutto: budget, spettacolarità e tutti gli elementi che hanno fatto il successo. Il più delle volte la maledizione dei seguiti portava a film senza gusto, sfilacciati e senza grandi idee. Un po’ come 2 Fast 2 Furious.

Il cambio in regia da Rob Cohen a John Singleton ha portato però alcune cose positive. Come dicevamo qualche riga fa, le macchine iniziano a sviluppare alcuni “superpoteri”. Non si limitano più a correre ad alta velocità, ma questa volta saltano anche dai ponti e atterrano indenni. Soprattutto riescono a volare dalla strada fino a una nave in movimento nel fiume lì vicino. Questa volta distruggendosi però, non sia mai di esagerare (per ora)!

2 Fast 2 Furious

Lo sviluppo in verticale dell’azione, che riprende il salto finale oltre il treno visto nelle battute conclusive di Fast and Furious, fu rivoluzionario. Ci vorrà molto perché dia i suoi frutti – anni dopo -, ma si segna qui un punto importante in favore del progressivo abbandono del realismo. In 2 Fast 2 Furious i veicoli sembrano macchinine Hot Wheels manovrate da un bambino che vuole sperimentare i salti mortali nelle sue avventure di fantasia. Qui il rapporto con la macchina è diverso dal primo film, dove l’oggetto era quasi padrone del guidatore. Ora le cromature e i neon sono la rappresentazione visiva del carattere di chi guida.

Nella scena iniziale c’è tutta la gioia di un film sulle auto. Nel buio della notte sfrecciano luci colorate. Quando la città dorme i migliori guidatori si sfidano a colpi di accelerate improvvise. Questa volta c’è meno cura negli sguardi e nei cambi di marcia però. Il green screen è particolarmente imperfetto e l’abbondante computer grafica dà alla sequenza una patina quasi astratta e cartoonesca.

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Eppure funziona, per lo meno fino a qui. Poi il film si perde nel suo bisogno di avere un nemico, di essere un thriller di gente che si infiltra e si fa beccare. Non mancano le belle donne (qui c’è anche Eva Mendez) e i “maschi alfa” che litigano. In 2 Fast 2 Furious il rapporto tra Paul e Tyrese è così fraterno da apparire quasi omoerotico. C’è tanto contatto fisico tra i due e le scaramucce sono quasi da innamorati più che da amici\rivali. Niente a che vedere con il timore che riusciva a incutere Vin Diesel. 

Nello show-down finale c’è un’apoteosi di macchine e colori. Un inseguimento in pieno giorno con le auto della polizia manovrate come se fossero in The Blues Brothers. Esplode il montaggio, gli stunt, le inquadrature ad angolo olandese. Manca però un po’ di personalità. Qualche idea forte che lo scuota dall’inerzia come temeva Vin Diesel.

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Dispiace dargli ragione, ma 2 Fast 2 Furious è più una sperimentazione tecnica che una storia compiuta. In questo sarà di grande stimolo per il proseguimento della saga. Come se stesse tastando il terreno, cercando di capire quanto osare e quanto tradire quel primo episodio così riuscito da rischiare di essere una gabbia.

Una fase fatta di tentativi e di inesorabile inerzia che proseguirà con il molto più riuscito The Fast and the Furious: Tokyo Drift. Un momento in cui il franchise stava cercando la sua identità, ma anche un nuovo pubblico, senza crederci più di tanto. Per i primi quattro film ogni pellicola appariva come quella che avrebbe chiuso il viaggio esaurendo le idee.

E invece si stava solo guardando in giro per capire dove trovare quel lungo rettilineo delirante e spettacolare che sta percorrendo ora, e che dovrebbe finire tra due (soli?) film. Le cose sono andate meglio poi, ma non si può negare che ci sia anche un po’ di nostalgia per un periodo in cui un semplice salto da un ponte sembrava una cosa eccezionale e inverosimile.

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