In scena, durante Marcello mio, non si vedono molti truccatori, ma ci sono. Chiara Mastroianni ne incontra una, nei panni di se stessa mentre veste quelli del padre negli studi Rai. L’attrice si permette di dare un paio di indicazioni su quali ritocchi fare, causando una comica reazione vulcanica della professionista. Fa ridere perché capiamo che, sebbene Chiara non abbia colpe, la donna è in burn-out da un lavoro che la costringe a incontrare un’infinità di star che vogliono fare a modo loro e che considerano la sua professione come una “manovalanza”. Marcello mio è un film in cui la gente si trucca. La protagonista lo fa tutto il tempo ed è importantissimo. Dimostra così il contrario della manovalanza: i trucchi e i costumi sono senso, materia e personaggio.

Il regista Christophe Honoré fa tante cose. Fa un omaggio a Marcello Mastroianni attraverso questo gioco di maschere e di identificazioni. La figlia decide di diventare suo padre dopo che una regista (Nicole Garcia) le chiede di essere meno Deneuve (sua madre) e più Mastroianni. Fa una riflessione sul cinema, ovviamente, attraverso il “meta”, senza innovare particolarmente. Quando è al meglio fa però una terza cosa: parla del significato che c’è dietro un trucco, dell’emozione che un costume provoca. Svela questo lato invisibile (eppure sempre in scena) del cinema.

La faccia che hai nasce da due volti

Assomigliare di più alla mamma o al papà è un bivio fondamentale nella carriera di un’attrice figlia d’arte. Cambia i ruoli che si possono ottenere. Implica diversi gradi di aspettative da parte dei registi. Chiara si guarda allo specchio e, in una scena che riesce ad assomigliare a una versione ironica di un momento alla David Lynch, sviene riconoscendo suo padre nei propri lineamenti. 

Qui c’è il check point ideale di Marcello mio, un film non per tutti, ma che si gioca proprio in questi primi minuti la qualità del dialogo con lo spettatore. Se lo si vede solo come la storia di una figlia che riporta in vita il padre imitandolo e prendendone i ricordi, quella di Christophe Honoré apparirà come un’operazione ombelicale di poco conto. Se si vuole confrontarsi con il significato più profondo (fortunatamente molto più emotivo che psicanalitico, si badi bene) allora il film prenderà un altro passo.

Marcello mio si rende conto di una cosa: che i genitori vivono sul volto misto, composito eppure originale, dei figli. Honoré fa un film molto più semplice di come appare. La storia di una bambina diventata grande, in un momento della sua vita in cui avrebbe bisogno del padre. Per chiedergli consigli, per tornare ad amare. Decide di usare quello che è il suo “superpotere” di attrice. Scavare cioè dentro di sé per fare emergere un altro io. In questo caso lui, Marcello. 

C’è una sequenza ambientata negli studi Rai. È piuttosto allucinata (come lo sono molte delle trasmissioni pomeridiane della televisione, solo un po’ di più). Stefania Sandrelli deve riconoscere il “suo” Marcello Mastroianni tra sette imitatori\sosia. Nessuno gli assomiglia, ad eccezione di Chiara. Però i finti Mastroianni sono identificati come simili a lui nei costumi di scena che questi imitatori indossano. Lo si ritrova nei suoi personaggi insomma. L’unico autentico Mastroianni è però quello impersonato da colei che ne ha ereditato il volto, sua figlia. 

È un momento importante, sentimentalmente. Il punto è un altro però. È quello che dice la conduttrice elencando i costumi di Mastroianni e quindi i suoi ruoli. Un attore non è una sola persona, vive in una miriade di personaggi. Chi lo rende possibile? I truccatori e i costumisti.

Marcello mio

Una figlia in transizione

C’è una premura che gli amici devono tenere dei confronti di Chiara. È una donna in transizione, non sessuale, ma d’affetto. Perciò toglierle la parrucca con stizza, come fa Melvil Poupaud (suo ex fidanzato nella vita reale e quindi anche nella finzione), è una violenza. 

Gli occhiali e il cappello che indossa non sono un travestimento. Sono l’essenza stessa del personaggio. Sta qui la differenza tra imitare e fare rivivere. È tutta nel trucco cinematografico. I truccatori estraggono con mascara, fondotinta, ombretto, rossetto e matita i personaggi. Il contrario, cioè imporre con questi artifici la parte all’interprete, disegnarla sul suo volto, non è cinema. 

Nella transizione di Chiara Mastroianni c’è la parte più sentimentale di Marcello mio. Quella cioè dove il film non prova ad essere un semi musical (quante canzoni!) metacinematografico, ma diventa un’opera del cuore. 

Trova la scena migliore nel momento più spontaneo. C’è Chiara che è a quel punto diventata Marcello a pieno titolo. E c’è Chiara da piccola, dentro un ricordo. Padre e figlia sono sdraiati sul pavimento. Sotto di loro vive Maria Callas. Sta facendo le prove e loro, sdraiati ascoltatori, sono il suo pubblico segreto. 

Poi il trucco finisce. Bisogna lavare via il personaggio, togliersi di dosso la giornata sul set e tornare se stessi. Marcello mio che è un film dove il cinema si guarda all’interno, si chiede una cosa fondamentale che tormenta ogni attore. Uno struccante pulisce la faccia, ma lascia sempre qualche segno. Allo stesso modo quanto i ruoli e le relazioni (non sono in fondo due cose molto simili?) sembrano scivolare via, eppure restano un po’ dentro di noi. Nei nostri volti?

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Articolo in collaborazione con Lucky Red

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