Morto Stalin se ne fa un altro va in onda su Rai Storia questa sera alle 21:10 e in replica su Rai 4K domani sera sempre alle 21:10

Morto Stalin se ne fa un altro è un film che, tra una risata e l’altra, pone una serie di domande parecchio scomode, la più interessante delle quali, anche considerate le polemiche e le reazioni scatenate dalla sua uscita, è questa: ci sono pezzi di storia talmente decisivi che smettono di essere solo locali e diventano di proprietà dell’intera umanità? Scritto e diretto da Armando Iannucci, scozzese di chiarissime origini italiane, artista poliedrico che si è occupato di cinema, radio e performance a tutto tondo, ha creato tra le altre la splendida Veep e ogni tanto ha anche girato un film, The Death of Stalin, come è più sobriamente intitolato in originale, è una storia vera di finzione che immagina come siano andate le cose in Unione Sovietica quando Stalin ci lasciò le penne – e che per questo motivo ha fatto infuriare la Russia e non solo.

Sarà la presenza di Michael Palin, ma Morto Stalin se ne fa un altro ha più di un’eco di certi sketch dei Monty Python, in particolare scene tipo questa. Certo, in teoria parla della morte di Stalin e delle sue conseguenze politiche sulla stabilità dell’Unione Sovietica et cetera. Ma in realtà parla della gente che è sopravvissuta a Stalin, in primis della nomenklatura, i membri più importanti del comitato centrale: Chruščëv, Malenkov, Molotov, Berija… Gente la cui esistenza è stata dedicata in parti uguali alla devozione al leader, alla patria e alla missione, e alla ricerca del potere e della scalata ai ranghi di un partito nel quale i rapporti di forza erano determinati prima di tutto dalla vicinanza al capo e dalla sua fiducia.

 

Morto Stalin se ne fa un altro tizi

 

Quello che vogliamo dire è che Morto Stalin se ne fa un altro parla di Stalin, ma avrebbe anche potuto parlare di Hitler, Mussolini o Pol Pot: il punto non è il regime, il punto è raccontare che dietro il volto di una dittatura si nasconde una rete sociale di sottoposti che sognano tutti segretamente di prendere il posto del capo e che, in ultima analisi, sono semplici esseri umani con pregi, difetti e idiosincrasie molto comuni che vengono messe in crisi nel momento in cui si devono confrontare con un’emergenza. Non importa quanto si siano preparati e abbiano previsto ogni evenienza – il film è diviso in capitoli separati da title card che citano varie voci del regolamento del partito comunista che definiscono e regolano le azioni da intraprendere in caso di morte del caro leader – il fatto di essere umani e non macchine è già di per sé un bastone gigantesco tra le ruote dell’apparato.

E infatti il film di Iannucci mette parzialmente da parte la verità storica (i nomi, per esempio, sono quelli, ma alcuni di questi al tempo della morte di Stalin non avevano più il ruolo che hanno nella finzione) per immaginare come possano essere andate davvero le cose dietro le quinte, quali siano le assurdità che si sono consumate nell’ombra a fronte di una facciata sobria, solenne e celebrativa. Ogni dialogo, ogni aneddoto o quasi, è tutto frutto della fantasia di Iannucci, che non è interessato a ritrarre personaggi storici in maniera fedele, ma a prendere delle icone e metterle di fronte a problemi semplicissimi e quasi stupidi: il figlio di Stalin che è un debosciato ubriacone fuori controllo, gli scontri di potere e le pugnalate alle spalle tra le diverse fazioni del comitato… C’è un momento incredibile quasi all’inizio del film, che rimanda al già citato Brian di Nazareth, nel quale, di fronte a uno Stalin esanime e probabilmente morto o morente Malenkov (Jeffrey Tambor) dice a Chruščëv (Steve Buscemi) e Berija che bisogna aspettare l’arrivo del resto del comitato per votare e decidere se bisogna chiamare un dottore, e Chruščëv gli risponde “il quorum può andare a farsi fottere! Questa stanza è cosciente solo al 75%”.

 

Buscemosso

 

Da un lato quindi Morto Stalin se ne fa un altro racconta le assurdità burocratiche e gli altrettanto assurdi giochi di potere avvenuti alle spalle del cadavere del dittatore, e sotto gli occhi dei suoi due figli (Vasily/Rupert Friend e l’eccezionale Svetlana/Andrea Riseborough). Dall’altro non si risparmia di dipingere la Russia staliniana come il luogo orrendo che era, una dittatura sanguinaria nella quale le forze dell’ordine girano casa per casa armate di liste di proscrizione – le quali a loro volta diventano il centro di una delle gag ricorrenti del film, a dimostrazione che non è vero che non si può scherzare su niente, ma su certi argomenti bisogna saperlo fare, e Iannucci sa farlo – a sparare in testa ai presunti traditori, e dove tutti i dottori capaci di fare il loro mestiere sono stati tolti dalla circolazione perché accusati di cospirare contro Stalin. È un ritratto impietoso e Iannucci non si trattiene, evita la sindrome del braccino e usa, come sfondo per la sua commedia nera, una gigantesca e sanguinosa tragedia.

E infatti il film ha fatto molto arrabbiare la Russia, ma anche il Kazakistan e il Kirghizistan, al punto che in questi tre Paesi ne è stata vietata la distribuzione. Il motivo è che il film sarebbe storicamente poco accurato (ma dai) e “parte di un complotto occidentale per destabilizzare la situazione politica in Russia”. Non è stata apprezzata questa scelta di impadronirsi di figure della storia locale e reinterpretarle con humor inglese, e sempre secondo la Russia Morto Stalin se ne fa un altro “distorce il nostro passato così che la gente pensando all’Unione Sovietica degli anni Cinquanta provi solo paura e disgusto”. E be’, come dire… sì, lo scopo del film è indubbiamente anche quello, è una satira feroce delle condizioni di vita sotto una dittatura e di certo non ha toni nostalgici celebrativi. Ma ancora una volta: non è quello il punto, il punto è come funziona un apparato di potere e quanto sia facile mandarlo in tilt quando dipende unicamente da una persona.

E quello che dice Iannucci è che quello che succede nel film non è cronaca storica, ma allegoria; è un assoluto, qualcosa che si ripete sempre uguale ovunque perché è parte della nostra stessa natura. E qui torniamo alla questione iniziale: la dittatura sovietica, le purghe staliniane, Berija e Chruščëv, sono ovviamente parte della storia dell’Unione Sovietica e della Russia, ma sono anche, come le figure principali del nazismo, del fascismo e di qualsiasi altra dittatura del mondo, in un certo senso patrimonio collettivo – gente le cui azioni hanno riverberato in tutto il pianeta, non solo entro i confini nazionali, e della quale anche uno scozzese di origini italiane ha diritto di parlare. Anche per sfotterli pesantemente, se serve.

Classifiche consigliate