Non permettete che l’Olocausto rimanga una nota a piè di pagina della storia, insegnatelo nelle scuole. Ascoltate le parole e gli eco dei fantasmi”. Sono le parole pronunciate da Steven Spielberg nel discorso di accettazione per l’Oscar del 1994 dato a Schindler’s List. Era il culmine di un anno straordinario, il 1993, in cui aveva portato sul grande schermo le sue due anime da regista. Entrambe al massimo della loro potenza: Jurassic Park confermava lo Steven Spielberg dal ritrovato il fiuto per il blockbuster, in totale affinità con il gusto e le aspettative del suo pubblico. Schindler’s List aveva fatto l’opposto: l’aveva consacrato anche come regista di cinema per un pubblico maturo, un autore capace di calarsi nella tenebra e di farlo sovvertendo il modo in cui l’Olocausto era raccontato. 

Un anno molto impegnato, come vi abbiamo raccontato qui, proprio per la produzione sovrapposta dei due film. In un modo o nell’altro alcuni dei suoi amici ad Hollywood avevano messo le mani su entrambi i film aiutandoli a prendere forma. George Lucas aveva finito il mix sonoro di Jurassic Park mentre Spielberg iniziava a girare il film su Oskar Schindler che per un periodo era stato in mano a Martin Scorsese. Due film che hanno radunato intorno a sé l’arte e la capacità artigianale di talenti assoluti dell’industria a supporto del regista. Tutto questo è stato premiato nel 1994 con un totale di 10 Oscar. 7 per Schindler’s List, 3 per Jurassic Park. Il timbro definitivo su una carriera straordinaria, riconosciuta anche dall’Academy, dove il regista era stato spesso snobbato.

Nel fare la cronaca di quello che è stata quella stagione cinematografica di 30 anni fa, Variety ha dato un altro risvolto della medaglia. Non tutto, infatti, era come appariva dai giornali. Quella di Spielberg non era un plebiscito, bensì una vittoria verso i suoi molti detrattori. Quella degli Oscar fu poi una battaglia silenziosa, celata al pubblico, vinta però dal regista contro il suo rivale più diretto in quell’edizione: la Miramax di Harvey Weinstein.

Schindler’s List sovverte gli Oscar

Miramax era solita fare da padrone nell’Academy. Weinstein voleva vincere l’Oscar e faceva di tutto per averlo. Lavorava di PR insieme al fratello Bob. Le campagne erano piuttosto aggressive. La strategia era semplice: con una mano si spingeva il film (in questo caso Lezioni di piano di Jane Campion), con l’altra si andava a minare la credibilità dei rivali con accuse di vario tipo: essere insensibili culturalmente o storicamente inaccurati. Si fomentavano le critiche esterne, per arrivare ai giurati. 

La vittoria di Spielberg ruppe il suo strapotere agli Oscar. Merito di un film che ha saputo entrare nel discorso pubblico come l’opera da vedere. Contro l’imponente campagna Miramax, il team di Spielberg è stato più discreto. Non hanno inviato le VHS con gli screener ai giurati, ma li hanno invitati ad assistere a una proiezione in sala con altre persone. La campagna ha lasciato che fossero il sentimento comune tra il pubblico e l’urgenza storica a premiare il film. Schindler’s List riuscì a trionfare, con lo stupore ironico di Clint Eastwood mentre gli assegnava il premio alla miglior regia, in una cinquina di candidati a miglior film di prim’ordine: il già citato Lezioni di piano, Il fuggitivo, Nel nome del padre e Quel che resta del giorno

Spielberg era un regista controverso

Steven Spielberg fino a quel momento non andava a genio a molti. Per questo la sua vittoria non era affatto scontata. Hollywood si interrogava se premiare in quella sede un regista come lui, non ancora considerato a pieno titolo in grado di andare oltre il cinema per famiglie o di genere.

Prima del 1993 Spielberg era sì ammirato dal pubblico, ma al contempo incredibilmente sottovalutato sia dagli Oscar che dai suoi pari a Hollywood. Molte persone volevano vederlo fallire, sostiene Variety senza però indicare con precisione chi fossero queste persone. La “colpa” di Spielberg era di avere avuto troppo successo, era troppo amato dal pubblico per essere riconosciuto anche a pieno titolo all’interno della comunità di autori. Un’invidia che si esprimeva con le accuse di essere, contrariamente alla sua immagine pubblica, una sorta di monarca. Un Re che faceva le regole a cui tutti dovevano sottostare. Il New York Times gli chiese di commentare il risentimento dei colleghi: “Non percepisco la gelosia e l’invidia, però ne sento parlare. Ho la sensazione che le persone che dicono queste cose su di me siano quelle che mi incontrano negli eventi, bevono con me e si dicono amici. Ma questa è Hollywood”.

Alla fine degli anni ’80 Spielberg sembrava aver perso la scia vincente. Always e l’Impero del sole non riuscirono a portare tutto il pubblico sperato in sala. Hook incassò, ma allontanò la critica. I tempi di E.T e Incontri ravvicinati del terzo tipo sembravano lontani. 

Quell’anno servì al regista per riprendere le redini e ritrovare la luna di miele con il pubblico e con il resto di Hollywood. Quando l’allora presidente Bill Clinton fece un endorsement irrituale, invitando tutti gli americani a vedere Schindler’s List, anche gli invidiosi capirono di non essere davanti a un evento come tanti. Spielberg si era preso una pagina nella storia del cinema presente grazie al titolo più premiato in quell’edizione, e una del futuro grazie a quel film per famiglie che aveva reso possibile rendere credibile sul grande schermo un T-Rex in corsa. 

Fonte: Variety

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