Guardare Occhiali neri, da appassionati del cinema di Dario Argento, è un’esperienza frustrante. Di fronte ad una trama così poco coinvolgente e all’appiattimento di un’intera poetica, la tentazione è di passare tutta la durata a cercare uno scarto, un doppio livello di lettura, per poi desistere di fronte alla loro evidente assenza. Un approccio suggerito anche dal confronto con due film, usciti appena un mese prima, che giocano apertamente su questa dimensione metatestuale. Parliamo del nuovo Scream e, prima di lui, di Matrix Resurrections, accomunati dal portare avanti un discorso su se stessi, mettendo in scena con autoironia e nostalgia l’impossibilità al giorno d’oggi di raccontare una credibile storia originale, parodizzando i tentativi di riportare in vita le icone del passato.

Occhiali neri si avvicina al primo per il genere di riferimento, ma ancor di più al secondo per un interessante punto di contatto tra i due autori. Dario Argento e Lana Wachowski condividono infatti la posizione nei confronti del panorama in cui ora si muovono. Il primo Matrix era uno degli archetipi del Blockbuster moderno, mentre il quarto capitolo ha fatto i conti con un contesto ormai saturo e una serie di esperimenti tanto coraggiosi quanto fallimentari in termini di incassi da parte delle sorelle Wachowski. Allo stesso modo, Argento era stato negli anni ’70 uno dei pionieri della tradizione italiana del giallo ed è tornato sul grande schermo dopo dieci anni di pausa e almeno trent’anni di opere minori, in un panorama di genere italiano che, nell’ultimo periodo, dopo decenni di magra, ha visto uscire molti titoli in sala e in piattaforma.

Siamo onesti: Occhiali neri non ha quel legame diretto con le precedenti opere di Argento, quella dimensione di requel (commistione di reboot e sequel) propria di Matrix Resurrections e Scream. Ma è invece per come presenta alcuni personaggi e atmosfere che siamo portati a pensare che avrebbe potuto essere il nostro Matrix Resurrections.

Reincarnazioni e ritorni

la-sindrome-di-stendhal

Occhiali neri racconta di Diana (Ilenia Pastorelli), una prostituta romana che viene presa di mira da un assassino seriale. Fuggendo dall’aggressione, rimane coinvolta in un incidente stradale nel quale perde la vista. Rimasta cieca, per fuggire dal killer potrà contare solo sul suo cane guida e sull’aiuto del giovane Chin, rimasto orfano a seguito dello stesso incidente.

La questione dello sguardo è uno dei motivi narrativi principali della poetica argentiana. La vista è spesso ingannatrice, per svelare il mistero bisogna andare oltre le apparenze, come fa il protagonista di Profondo Rosso. La sua precarietà è qualcosa che riguarda anche lo spettatore, tra false soggettive e fondamentali dettagli in primo piano che passano inosservati. Spesso allora è il non vedente ad avere accesso alla verità: in Suspiria il pianista cieco Daniel è l’unico a percepire la presenza di qualcosa di minaccioso, prima di essere sbranato dal suo cane; ne Il gatto a nove code l’enigmista cieco Franco scioglie il mistero.

La condizione della protagonista sembra allora non casuale e i rimandi si infittiscono per come, indossando gli occhiali neri del titolo, sembra richiamare un altro personaggio: la vice ispettore Anna Menni interpretata da Asia Argento ne La sindrome di Stendhal, che, in un’immagine iconica, ne indossa un paio simili. Nel film, la ragazza indaga su un serial killer che poi la rapisce e la violenta. Riesce a fuggire, ma il trauma subito però non scompare, causandole scompensi psichici: comincia ad assumere atteggiamenti mascolini, poi la sua femminilità si risveglia.

Pensando ai tanti personaggi chiave di Matrix Resurrections, nulla ci vieta di immaginare che Diana sia una reincarnazione di Anna, in continuità con le tante figure femminili ambigue del cinema di Argento (vedi L’uccello dalle piume di cristallo). Prima di perdere la vista, si rifiuta di piegarsi alla sopraffazione del maschio; dopo, però, più che farsi parte attiva nelle indagini, lei brancola (letteralmente) nel buio. Lo svolgimento infatti non prevede alcuna riflessione sulla sua cecità, utile solo come veicolo narrativo.

Oltre alle (potenziali) reincarnazioni, non mancano neppure ritorni (poco) inaspettati: come nel nuovo Matrix ritroviamo Neo e Trinity, così in Occhiali neri ricompare proprio Asia Argento (che ha lavorato in cinque film col padre prima di questo) nel ruolo di “istruttrice all’orientamento e alla mobilità” come riporta la scritta sulla sua t-shirt. Giusto per rendere ancora più evidente che qui è tutto chiaro e dichiarato, senza nessun secondo grado di lettura. “Sono cresciuta qui, vivevo da sola con mio padre“, dice quando accoglie Chin e Diana nella propria casa. Se il suo personaggio è ancora una volta mera funzione narrativa, mentre scambia superflue battute la nostra mente non può che volare altrove. Diana funge da genitore surrogato per il bambino, prendendolo sotto la sua ala protettrice ma poi non riuscendo a preservarlo dal pericolo. Che sia allora un messaggio implicito di Argento alla figlia Asia, che nei suoi film ha avuto i primi ruoli da protagonista, in cui però per certi versi è rimasta poi ingabbiata?

Alla ricerca dello stile perduto

la-sindrome-di-stendhal

Cosi dejà vu e così tutto sbagliato“, dice Bugs all’inizio di Matrix Resurrections, mentre assiste a scene di combattimento così generiche, così girate male da rendere chiara l’intenzione di (auto) sabotaggio della regista. Le coreografie come il Bullet time, riproposto in scene volutamente esasperate, citato dai personaggi stessi nella finzione: quello che era un fiore all’occhiello della saga è diventato etichetta parodizzata e depotenziata. Anche Occhiali neri inizia con un invito a entrare nell’universo argentiano: alcune dissolvenze ci conducono in paesaggi romani dove a dominare è una natura minacciosa, fino al primo piano del sole in eclissi, richiamando l’incipit di Suspiria e Phenomena. Poco dopo, il primo brutale assassinio è messo in scena tramite un notevole tappeto musicale elettronico.

Ma poi, via via che la trama procede, viene a mancare il tratto principale che aveva caratterizzato le opere del regista: il lavoro sull’aspetto visivo, il far leva sulle emozioni epidermiche dello spettatore. La sua filmografia rivela un progressivo abbandono della linearità e della coerenza della trama per proporre suggestione visive, il delirio delle immagini scevre da plausibilità, passando dal thriller all’horror puro. L’apice è Inferno, secondo capitolo della Trilogia delle Tre Madri, dove la vicenda, priva apparentemente di una coerenza interna, è formata da una serie di episodi terrificanti.

Di tutte questo stile, in Occhiali neri non rimangono che flebili tracce, che possiamo cogliere da spettatori accorti, ma del tutto beffarde, per quanto sono latenti. Mancano le consuete soggettive dell’assassino, accennate solo un attimo quando il killer entra nella casa della protagonista. Nell’appartamento di Chin, all’improvviso vediamo un gioco di luci rosse e blu che richiama la tipica palette cromatica del regista, che però anche qui si spegne presto. Così, anche nella scena successiva, quando Diana e il bambino scappano nei cunicoli, la macchina da presa resta incredibilmente immobile, piuttosto che attraversare lo spazio, aprendosi a quei liberi movimenti che caratterizzano alcune delle sequenze più suggestive della filmografia del regista.

Anche a livello di temi il discorso è simile: la cecità, come già accennato, ma anche la componente acquatica. Come dimenticare ad esempio l’incipit di La sindrome di Stendhal, in cui la protagonista si immergeva nel mare all’interno del quadro La caduta di Icaro, dove veniva baciata da un pescecane, rappresentazione delle sue pulsioni sessuali inconsce? Pensiamo anche all’incipit di Suspiria, che si svolge sotto la pioggia scrosciante e poi si sposta in un bosco dove si trova la scuola di danza, evocazione di un universo fiabesco e allo stesso tempo spettrale. Anche in Occhiali neri Daria e Chin, per sfuggire all’assassino. vagano in un bosco e poi finiscono in un acquitrino, dove sono assaliti da serpenti: breve parentesi priva ancora una volta di valenze simboliche.

Di fronte allora a questo livellamento di stile e di visionarietà, poteva essere facile trasporre tutto su un livello autocritico e ironico. E invece, purtroppo, Argento sembra non accorgersene per riproporre un suo tipico approccio che azzoppa il risultato: l’eccessiva seriosità.

Crederci ancora

la-sindrome-di-stendhal

Se Inferno poteva essere un punto di svolta per la carriera di Argento, il suo insuccesso di pubblico lo spinge a tornare, a partire da Tenebre, ai meccanismi del thriller. Con i successivi due film, inizia una collaborazione in fase di sceneggiatura con Franco Ferrini, che si è occupato anche di Occhiali neri. A caratterizzarli è in particolare un ironico versante inedito: in Phenomena la componente investigativa è in secondo piano e diventa quasi parodia quando a condurre le indagini diventa una giovane ragazza (la protagonista, interpretata da Jennifer Connelly) accompagnata da una mosca. In Opera, alcune battute sembrano far invece riferimento al regista stesso come: “Torna ai film horror e lascia stare l’opera” o “La lirica non è il cinema, dove se fai qualcosa di originale ti dicono subito bravo“. Il secondo titolo, in particolare, che rappresenta l’ultimo veramente interessante di Argento, un compendio di tutta la sua poetica ormai in fase terminale, è quello che più si avvicina ad una (potenziale) riflessione autoironica sul suo cinema.

Invece, nei successivi film, snobbati dai fan e dalla critica, il regista ha cercato di riproporre i propri stilemi, con risultati alcune volte irrisolti ma pur sempre interessanti (il già citato La sindrome di Stendhal) altre totalmente indifendibili (Il cartaio, Giallo). Quello che stona in tutti questi, e che appunto è ben presente nel suo ultimo lavoro, è il modo in cui incredibilmente sembra essere convinto di proporci una storia appassionante e credibile, di paura e tensione, quando poi è palese la sua meccanicità, i suoi plot twist scontati, tra poliziotti incapaci e il romanesco esasperato di Pastorelli. Uno svolgimento senza sussulti che approda a un finale melanconico che evita qualsiasi ambiguità.

Se c’è un aspetto caratteristico delle sorelle Wachowski è, al di là del risultato complessivo, l’amore per i personaggi e le storie, l’utopia travolgente di poter ancora mettere in scena un racconto epico dall’impianto classico (Jupiter-il destino dell’universo) o, come in Matrix Resurrections, il tentativo di riproporre i discorsi sull’identità a loro cari, il trasporto nel poter far sollevare in volo ancora una volta i propri eroi. Occhiali neri al contrario sembra la resa di un autore ormai stanco e privo di qualunque slancio vitale: in noi spettatori la frustrazione prevale sulla nostalgia e mentre scorrono i titoli di coda sentiamo un po’ di turbamento, non dovuto al film, ma al fatto che realizziamo l'(ingloriosa) fine che sta facendo uno dei maestri del nostro cinema di genere.

 

Classifiche consigliate