Forse Spencer non è uscito nel momento migliore, e si è posto un compito davvero arduo.

Con Jackie, il regista Pablo Larrain aveva realizzato un riuscito scorcio inedito di una figura, quella della vedova Kennedy, poco affrontata dalla narrazione audiovisiva. Il suo secondo biopic femminile, invece, narra di Diana Spencer, negli ultimi tempi più volte al centro di opere di finzione e di documentari. A prima vista, Spencer può dunque sembrare non aggiungere nulla di nuovo a quanto già sappiamo, limitarsi a far leva su personaggio noto al grande pubblico come viatico per la sua attrice protagonista, quella Kristen Stewart ancora impegnata a scrollarsi di dosso il suo ruolo in Twilight. Ma in verità il film guarda consapevolmente a chi lo ha preceduto e lavora su un altro obiettivo: dando la conoscenza del personaggio e del suo pregresso ormai per assodati, rinsalda e approfondisce alcuni dei suoi tratti emersi in due recenti opere, la quarta stagione della serie Netflix The Crown, per quanto riguarda la condizione esistenziale, e il film Diana-La storia segreta di Lady D, per il suo rapporto con i media.

Spencer e The Crown: ritratto di una bambina prigioniera in dimore spettrali

 

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La quarta stagione di The Crown termina esattamente nel momento in cui inizia Spencer: la vigilia di Natale 1991, che la protagonista trascorre nel palazzo di Sandringham insieme a tutta la famiglia reale. L’atmosfera è spettrale, gli interni pervasi da una fitta foschia, come tutti i luoghi in cui appare il personaggio: la casa degli Spencer dove Carlo la incontra per prima volta, la residenza di Balmoral, dove lei è messa alla prova dalla famiglia reale, e soprattutto Buckingham Palace, dove è lasciata sola in attesa delle nozze. Qui Diana ha campo libero: telefona e scherza con le vecchie coinquiline, attraversa i lunghi saloni sui pattini. Poi però l’impeto di gioia e di placida trasgressione lascia il campo al senso di solitudine (evocato dalle grandi stanze vuote), di clausura e di oppressione: le scale a chiocciola simboleggiano il vortice in cui presto cadrà.

Il film di Pablo Larrain parte dalla Vigilia per svolgersi in un arco lungo soli tre giorni, decisivi per il futuro del matrimonio con Carlo. Senza adottare nessun cartello informativo (se non quello che indica “Questa è una favola da una tragedia vera”) ci immerge subito nella narrazione, mostrandoci la grande residenza, attraversata da una fitta nebbia, come un’isola staccata dal resto del mondo. Da questa Diana cerca di scappare in auto, ma si perde, ed è costretta a fare subito ritorno. Lo sceneggiatore Steven Knight lascia impliciti tutti gli elementi pregressi (lei indossa le perle donate da Carlo all’amante, senza che ne sia fatto il nome, il suo esaurimento nervoso è già in atto senza spiegare da cosa derivi) per concentrarsi sul senso di orrore persistente: gli interni curati si scontrano con la sua anima tormentata (come analizzava Bianca Ferrari nella recensione) e sono abitati da presenza fantomatiche (come Anna Bolena, che lei scopre essere lontano parente degli Spencer e in cui si rivede). Mentre attraversa le stanze, la macchina da presa la segue in ampi e inquietanti movimenti, trasformando la magione in una Hill House. In questa gabbia dorata, appare come una bambina sperduta.

In The Crown viene esplicitamente detto che Diana incontra Carlo quando ha 18 anni, creando un evidente contrasto con il personaggio in scena, che ci appare molto più giovane (un cortocircuito notevole se consideriamo che la sua interprete, Emma Corin, ne aveva 25 al momento delle riprese). Nel 1991, Diana ha ormai 30 anni, che corrispondono all’incirca all’età di Kristen Stewart. Ancor di più però, il suo personaggio sembra regredire ad una dimensione infantile. Più volte le viene detto “sembri una bambina”, nell’intimo rapporto coi figli sembra mettersi alla pari con loro, fino a quando, di fronte ai suoi comportamenti esasperati, il piccolo William la tratta come se fosse una sorella minore un po’ sciocca. In questa dimensione, la scelta di Kristen Stewart appare funzionale: la sua dizione inglese precaria, i suoi occhi sempre rivolti verso il basso, il suo parlare sempre come se avesse il fiatone e le sue frasi spezzate rendono perfettamente lo spaesamento esistenziale del personaggio.

Il suo soffocamento è rafforzato da quello in cui vessa il suo corpo, cinto dall’abbigliamento che è costretta a indossare. In The Crown trascina a fatica e lentamente il lungo abito da sposa; spesso i suoi abiti colorati e sgargianti contrastano con la grigia atmosfera che la circonda. In Spencer, a ogni specifica circostanza è obbligatoriamente abbinato uno specifico lussuoso abito, che per lei diventa una camicia di forza, amplificatore della sua condizione di prigionia. Così, nel tentativo inutile di respirare, è costretta ad atti autolesionisti. Il suo unico sfogo sembra essere il ballo, in cui dare un attimo di libertà al proprio corpo, che però fatica a muoversi negli abiti lussuosi. Sia in The Crown che in Spencer, il modo per allietare i momenti di massima tensione è indossare un attimo il tutù e quasi perdere coscienza nell’ebrezza dei passi di danza. Anche nel film Diana c’è una breve scena in cui lei, forse solo in sogno, si lascia andare in discoteca, per un attimo libera dallo sguardo altrui e sola con sé stessa.

Spencer e Diana: sotto il giogo dello sguardo altrui

 

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Ci devono essere due te, quello vero e quello a cui fanno le foto“, dice il Carlo di Spencer nell’unico dialogo privato che ha con Diana. Una frase che sentenzia ed esplicita come la sua precarietà mentale sia legata all’inderogabilità di mettersi in mostra pubblicamente. Questo è un aspetto centrale nel film Diana, che racconta cosa succede dopo la separazione con Carlo, in particolare la sua relazione con Hasnat Khan, un affascinante cardiochirurgo di origine pakistana. La trama dà molto spazio al versante sentimentale delle vicende, messe in scena con un coté da melodramma e rotocalco, in cui la rappresentazione della protagonista è del tutto banalizzata, umanizzata, ma involontariamente ridicolizzata.

Allo stesso tempo, il film va molto più a fuoco quando racconta la sua relazione coi media. Nell’incipit è resa evidente la presenza della macchina da presa, che si introduce nell’appartamento, segue la protagonista nelle varie stanze fino a quando indietreggia e lei si volta, come accorgendosi della presenza di qualcuno. Da lì in avanti la regia propone costantemente punti di vista ricercati, in cui spesso l’inquadratura è il punto di visto di un dispositivo (schermi televisivi, teleobiettivi di paparazzi, circuiti chiusi di sorveglianza negli ascensori).

Per Diana è dunque impossibile avere un’immagine privata, non filtrata dai media. Il culmine avviene verso la fine del film, quando lei è su una nave con Dodi Al-Fayed e ancora una volta non può scappare dagli obiettivi dei fotografi. Ad un certo punto, l’inquadratura ci propone un suo primo piano con un’inquadratura dal basso, come una soggettiva del libro che sta leggendo, come se anche lì ci fosse un occhio che la scruta.

Anche la Diana di The Crown è spesso attaccata dai flash dei fotografi, ancor prima di essere sposata con Carlo. Successivamente, nel loro viaggio in Australia, i momenti felici con il marito e il figlio sono una performance agli occhi dei paparazzi. “Adoro esibirmi, è il modo migliore in cui posso esprimere me stessa e in cui posso mostrare quello che sento. Perciò sta volta siamo solo noi due, niente pubblico”, dirà poi a Carlo in una cena in cui solo soli, giustificando il suo “scandaloso” duetto sul palco della Royal Opera House, ma allo stesso tempo esplicitando la sua triste parabola: tanto quanto, da sconosciuta, amava esibirsi a teatro, tanto ora, da celebrità, non può più evitare di farlo.

Anche questo aspetto, Spencer lo porta all’estremo, riflettendolo in maniera ancora più esplicita nelle scelte di messa in scena. La regia infatti alterna i primi piani di Diana, in cui la macchina da presa è sempre troppo vicina al suo volto, a inquadrature con angoli dal basso o di profilo, a movimenti di macchina instabili nei dialoghi che ne richiamano la precarietà e anche l’oppressione dello sguardo altrui. Non ci sono mai soggettive, ma spesso nell’inquadratura risalta chi non distoglie mai gli occhi da lei, come i clienti del fast food della prima scena o la famiglia reale a pranzo.

La regia dunque consapevolmente e criticamente si pone allo stesso livello dello sguardo scandalistico di quei fotografi che non appaiono mai in prima persona, ma sono sempre presenti e nei pensieri della famiglia reale. Diana, che sembra non curarsene, viene richiamata a chiudere le tende della propria stanza dallo scudiero della Regina interpretato da Timothy Spall, incaricato di “guardare affinché gli altri non guardino, perché le lenti sono terribilmente potenti di questi tempi“.

E così, in conclusione, capiamo come Spencer sia l’approdo ideale per un regista che ha spesso messo al centro il potere dei media e il rapporto tra realtà e rappresentazione. In No-I giorni dell’arcobaleno, raccontava come la campagna per il voto al referendum che ha decretato la caduta di Pinochet fosse stata affidata ad un pubblicitario. In Jackie, la protagonista, dopo la morte del marito, aspirava a rendere la Casa Bianca una moderna Camelot, sentenziando “La gente ama le favole. E queste finiscono per diventare più reali delle persone che si hanno al proprio fianco“. Lei poi finiva per credere in prima persona a queste favole, quelle a cui la Diana di Spencer ormai non dà più credito: l’incanto della reggia e della corona è da tempo svanito. Forse allora solo il cinema, col suo potere immaginifico, può salvarla, dando al film un finale lieto, diverso da quello tragico verso cui sappiamo andrà incontro nella realtà.

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