È bello essere Re e Regine. Ce lo insegnano le fiabe classiche. Si vive bene quando si ha il potere, la stima del popolo, una quantità di denaro tale da non sentire mai l’impulso di preoccuparsene, una servitù che prepara cibi deliziosi. Si vive in case enormi e si possono indossare vestiti splendidi. Per Pablo Larrain invece tutto questo può essere un incubo. E qui inizia il suo Spencer.

Essere Re e Regine è un’esperienza soffocante. Si ha il potere ma non se ne sente il brivido, solo la responsabilità. Il denaro è così tanto da non contare più, gli aiutanti domestici sono occhi indiscreti. Certo il cibo è ottimo, ma nel suo nome si sacrifica anche la più piccola scappatella in un fast food. Si possono indossare abiti firmati, purché lo si faccia con la finestra chiusa. In una reggia impenetrabile e gelida. In un parco sconfinato ma senza vita. Fotografati come oggetti, venerati come idoli che non possono confessare le proprie debolezze.

L’amara fiaba di Diana Spencer

Spencer, da poco disponibile su Amazon Prime Video, è riuscito nel suo proposito: diventare una fiaba al contrario. Rompere la leggenda per riscoprire l’umano. I richiami all’immaginario popolare fiabesco, che spesso si chiude nella scalata sociale come unica possibilità di felicità, sono molti. Non ci sono principi azzurri o re illuminati. Il natale dei reali è invece pieno di tradizioni da rispettare per mantenere proprio quella distanza nella narrazione rispetto al popolo.

C’è uno spaventapasseri su un sentiero che ricorda quello del mago di Oz. Un confine ben preciso, quasi magico, che divide il mondo reale dal castello. Ci sono piccoli aiutanti, gioielli incantati, cibi avvelenati. Quello immaginato da Larrain per Diana Spencer è un lieto fine amarissimo. Siamo oltre il vissero felici e contenti, che ci immaginiamo pronunciato in un ideale film che precede questo, ovvero la storia di una ragazza che diventa principessa. Solo che la principessa ha un retaggio non comune e il suo cognome è Spencer. Quindi qualcosa non funziona, qualcosa si rompe in lei e fuori da lei tramutando l’opulenza e il potere nei loro opposti.

Kristen Stewart recita mettendo prima la fragilità della persona. Parla con un filo di voce, tranne nei momenti chiave con i figli, unico momento di sollievo. L’affetto sincero è un rifugio contro quella casa che in una storia della buonanotte sarebbe abitata da una strega cattiva. Qui invece è fatta di fantasmi del passato, di tradizioni che assorbono ogni vitalità ai reali trasformandoli in macchine. Freddi esecutori di riti. Ci sono anche fantasmi buoni, figure amiche che aiutano a capire che l’unico modo per salvarsi dall’inganno è fuggire. Come nelle fiabe l’eroina non più (solo) principessa, si rende conto di essere lontana da casa. Deve resistere, stare alle regole e aggirarle il giusto per crearsi uno spiraglio da sfruttare.

Spencer è un film di guerra

All I need is a miracle, cantano alla fine la mamma e i suoi due figli mentre abbandonano le vesti regali e ritornano nel mondo. Un miracolo che solo le storie possono dare.

Questo è Spencer la prima volta che lo si vede. Se lo si è amato lo si riguardi una seconda volta. Diventerà un film di guerra. La regia filma una donna in trincea, che deve scappare sì dal castello, ma che è anche in battaglia con se stessa. Larrain lo dice piuttosto esplicitamente all’inizio. Carri militari che portano pesanti scatole sigillate. Non ci sono dentro armi, ma le cibarie che allieteranno i tre giorni di festa di Natale. Le cucine vengono controllate con precisione. Agli inservienti viene intimato il silenzio. “Loro ci sentono”. Rivelare la propria esistenza è rischioso come gridare durante un’imboscata. Nel frattempo, in strada, i primi cadaveri (animali) sono calpestati dalle macchine.

Spencer

Di armi poi ce ne sono parecchie. Sono quelle delle guardie che presidiano la residenza dei reali, pronte a sparare in caso di intruso. Diana rischierà anche il fuoco amico sgattaiolando via di notte. Ci sono scheletri di case che sembrano avere combattuto molte battaglie. In un film così ricco di scenografie e ricchezza ostentata, c’è un campo di battaglia poverissimo tutto intorno. Quanta poca vita circonda Diana. Un’aridità ancora una volta simboleggiata da quello spaventapasseri con la giacca sgualcita. 

Il cinema che mostra contro quello che fa sentire

Il conflitto interiore di Diana è presente ovunque, tutto intorno a lei. Anna Bolena è una visione di morte o di vita? Probabilmente entrambe. La collana di perle è il cappio al collo di una prigioniera nella psiche, che è libera di andarsene fisicamente quando vuole, mentalmente è così sfinita da non riuscire a muovere un passo. Larrain non ci fa vedere cosa può succedere raggiungendo il sogno imposto del più importante titolo nobiliare. Ce lo fa sentire.

Spencer è sia una fiaba che un film di guerra. La prima si infrange nel momento liberatorio con l’incontro con la realtà finale. Il sentiero dove si è persa viene percorso al contrario. Il secondo film invece termina quando si risolve la battaglia interna a Diana. Lei attraversa il campo di battaglia. Nel film è il parco in cui i reali si dilettano nelle attività di caccia, per il sound design è uno spazio di morte. Gridando, per la prima volta a pieni polmoni, invita William e Harry a tornare con lei a casa. È un gesto inaspettato che fa cessare il fuoco. 

Solo chi è stato al fronte può sapere come portare avanti un conflitto e soprattutto come terminarlo. È maggiore Alistair Gregory (Timothy Spall) con i suoi ricordi dei momenti di terrore sotto i proiettili e le storie di cavalli indomabili a farlo. Un deus ex machina, una figura a sua volta spettrale, che suggerisce, tramite un libro messo in bella vista, come non ripetere la storia. Qui finisce lo Spencer di guerra e ritorna la fiaba al contrario in cui il lieto fine resta incollato nell’ultimo fotogramma scomparendo nella realtà dei titoli di coda alla fine del film.

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