The Ring di Gore Verbinski compie vent’anni, ed è quasi impossibile parlarne senza parlare del 2002, e dei milioni di motivi che legano quell’anno (quel periodo, meglio) allo straordinario successo commerciale e culturale del film. Questo pezzo sarà quindi per forza di cose confuso, uno zibaldone di pensieri che nasce non solo da un’analisi critica del film a distanza di due decenni, ma anche al fatto che chi l’ha scritta aveva l’età giusta quando il film uscì, e finì quindi intrappolato nella sua rete senza possibilità di scampo. Preparatevi a un po’ di nostalgia, quindi, e se potete aprite il pezzo su Internet Explorer: vi aiuterà nell’immersione.

The Ring fu un fulmine a ciel sereno. Ovviamente non per chi già frequentava la cinematografia dell’orrore giapponese, e aveva quindi già visto l’originale di Hideo Nakata uscito quattro anni prima, e magari i due film precedenti del filmmaker giapponese. Il punto però è che nel 2002 la gente che in America, e più in generale nel c.d. “Occidente”, guardava abitualmente horror giapponesi era una percentuale infima della popolazione cinefila: Internet non era ancora la potenza tentacolare che è oggi, le velocità di download erano infime e costosissime, e importare materiale dal Giappone era spesso complicato – e altrettanto costosissimo, ovviamente.

Ring

The Ring fece quindi, in un certo senso, quello che i vari Hero e La tigre e il dragone fecero per il wuxia e il cinema cinese: prese un genere tipicamente giapponese e lo riconfezionò per il pubblico occidentale, cercando nel contempo di snaturarlo il meno possibile così da far venire a un po’ di gente la voglia di andarsi a scoprire i modelli originali. Ovviamente la differenza tra The Ring e gli altri due film citati è che i secondi erano diretti da gente che veniva dai Paesi di riferimento, mentre Gore Verbinski è americanissimo; ma l’effetto sul pubblico fu lo stesso: una collettiva apertura d’occhi su tutto un mondo cinematografico da scoprire.

Grazie a The Ring imparammo a temere i fantasmi che si muovono a scatti e le bambine in generale; imparammo che non serve massacrare interi gruppi di adolescenti per intrattenere e spaventare, e che è possibile creare un jump scare anche con un oggetto inanimato e immobile. Ci confrontammo per la prima volta con una mitologia di tipo diverso da quella dei classici horror di fantasmi occidentali, che mescolava tentazioni quasi folk a pesantissimi metaforoni sull’abuso e la violenza in famiglia. È vero, avremmo potuto scoprire tutto questo andando direttamente alla fonte, e interessandoci di più a film provenienti da Paesi del mondo diversi dall’America; ma come dicevamo non era facile, e non tutti potevano permettersi questo tipo di esplorazione (mentre oggi chi vuole scoprire una filmografia non ha alcuna scusa, tra piattaforme di streaming e metodi meno convenzionali).

Samara

Tutto questo, però, questa capacità di The Ring di aprirci porte su altri mondi e altri cinema, non è neanche lontanamente sufficiente a spiegare il suo successo: una cosa è finire nei circoli cinefili come oggetto di studio e curiosità, un’altra è incassare 250 milioni di dollari a fronte di un budget di 50, e piacere abbastanza da garantirsi due sequel. È qui che ci viene comodo citare The Blair Witch Project, che tre anni prima fece un botto inaspettato grazie soprattutto al potere del marketing e di una campagna virale quando ancora “campagna virale” era un’espressione esotica e non un normale argomento di conversazione.

TBWP dimostrò che, incuriosendo la gente e nutrendola a bocconi e suggestioni, era possibile convincerla ad andare in sala in massa, a spendere soldi in biglietti, pop-corn e bevande gassate. The Ring ebbe quindi gioco facile a inserirsi su quella scia, visto che al centro di tutto il film c’erano un meme e l’equivalente video di un creepypasta (o di un video dei Tool), cioè questo:

Il meme in particolare è il vero segreto del successo di The Ring, successo arrivato prima ancora che il film uscisse in sala. “Sette giorni…”: quelle due semplici parole, pronunciate al telefono, bastarono per convincere milioni di persone che quello di Verbinski era il film da vedere, perché avrebbe fatto tanta paura ma anche perché avrebbe fornito materiale per spaventare gli amici per mesi a venire. Se avete meno di trent’anni probabilmente non ve lo ricordate, ma nel 2002 gli smartphone non erano diffusi quanto oggi, e non c’era niente di più hip di avere un Nokia 3310. E forse non vi ricordate neanche che al tempo era possibile nascondere il proprio numero quando si telefonava: bastava aggiungere *31# prima della chiamata, e il ricevente avrebbe visto solo “numero sconosciuto” sul suo schermo.

Purtroppo nessuno ha mai pensato di fare uno studio del genere, ma sarebbe interessante scoprire quanto le chiamate anonime si siano impennate intorno all’uscita di The Ring. Chi aveva più di 15 anni nel 2002 ne ha probabilmente ricevute decine, ed effettuate altrettante; ancora peggio era quando si andava al cinema con gli amici a vedere il film: nel tragitto di ritorno dalla sala a casa era impossibile non ricevere una di queste chiamate, soprattutto se detto tragitto prevedeva, per esempio, passaggi in garage o per altri luoghi bui. The Ring parlava di telefonate minacciose raccolte con il telefono di casa, ma involontariamente si ritrovò a beneficiare della diffusione dei telefonini tra gli adolescenti, trascendendo il suo status di film per diventare una fabbrica di scherzi più o meno spaventosi.

The Ring Samara

Ovviamente The Ring fu aiutato anche dal fatto di essere un gran film. Minimale nei dialoghi e nelle ambientazioni ma elegantissimo e quasi barocco nella messa in scena e in particolare nei movimenti di macchina, è un horror che si basa su una maledizione alla quale è apparentemente impossibile sfuggire – un’idea che di per sé è in contrasto con l’assunto standard degli horror occidentali, che prevedono che dove c’è un fantasma c’è anche un modo per sconfiggerlo. The Ring non trascura questo aspetto di detection che è una delle fondamenta dell’horror soprannaturale, ma lo ribalta e lo stravolge proprio sul finale, quando sembra che aver fatto le cose secondo le regole tradizionali possa salvare Rachel Keller e suo figlio.

Il doppio finale di The Ring, rivelato con stupore e raccapriccio dal piccolo Aidan, è ancora oggi uno dei momenti più agghiaccianti dell’horror di questo millennio, e l’intero ultimo atto è una paziente e crudele decostruzione di tutto quello che ci aspettavamo da un film di fantasmi. The Ring era un film che ti lasciava scosso e ancora preoccupato all’uscita dalla sala – una caratteristica che lo aiutò a cementarsi nella mente di una generazione per il discorso che facevamo prima sui 3310.

Nokia3310

Questa sua memificazione, purtroppo, fu anche la rovina di The Ring, e in generale del breve periodo del j-horror portato in America: a Hollywood qualcuno si convinse che bastava scrivere su una locandina “tratto da un horror giapponese” per portare la gente in sala, e così ci toccò subirci i remake di Ju-On, Dark Water e Pulse, che a differenza di The Ring non avevano la qualità cinematografica necessaria a lasciare davvero il segno. Ma come sempre in questi casi la colpa non è certo di Verbinski né di The Ring, che anzi vent’anni dopo ci sembra ancora meglio di quanto fosse all’epoca proprio perché abbiamo visto cosa succede quando quel tipo di progetto manca di ispirazione. Tanti auguri, quindi, e se stanotte dovesse squillarvi il telefono non rispondete: con ogni probabilità è un call center.

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