Uno, Due, Tre, 60 anni fa Wilder decise di girare il film più veloce del mondo

La dichiarazione è molto famosa e nota, si trova nel libro intervista Conversazioni con Wilder, scritto da Cameron Crowe nel 1999, è diventata nel tempo l’epitome dello stile di Billy Wilder e campeggia ovunque, anche nella pagina wikipedia del film: “[Cagney] aveva il ritmo giusto, anche solo la sua rapidità era divertente […] l’idea generale era di fare il film più veloce mai realizzato”. Nasce così, da un casting impensabile, Uno, Due, Tre facilmente la commedia migliore di sempre e di certo la più divertente, anche migliore degli altri film che Wilder ha scritto con I.A.L. Diamond e che sono più famosi. Meglio del bellissimo e romanticissimo L’appartamento (che a sua discolpa è un film più strutturato e una commedia più seria), migliore di A qualcuno piace caldo (mitico per tantissime ragioni e irripetibile ma più camp di questo). Uno, due, tre è il modello del miglior cinema che ha qualcosa da dire con i mezzi dell’umorismo.

La storia è quella di un dirigente della Coca Cola di Berlino (con un cognome eccezionale: McNamara) nel pieno della guerra fredda, il muro ancora non è stato tirato su ma la città è divisa in due e la convivenza con i russi comunisti è difficilissima. La miccia è innescata dall’arrivo a Berlino della figlia del grande capo della compagnia, proprio quando il protagonista è in lotta per una grande promozione che lo porterebbe via da lì. La ragazza è svampita e appena arrivata si fidanza con un comunista, vuole sposarlo, ancora peggio si scopre che è incinta. Prima quindi il protagonista cerca di farli separare, poi quando viene a sapere del fattaccio decide di rendere il comunista un presentabile capitalista per l’arrivo imminente del suo capo. E come sempre in quel cinema è la svampita a dire le cose più acute (“Io non crescerò mio figlio come un capitalista!” – “Quando sarà maggiorenne potrà decidere da sé se essere un capitalista o un comunista ricco”). Tra corse in auto, trattative, avanti e indietro tra est e ovest, tutte a perdifiato, quel che emerge è l’inarrestabile macchina americana contro la lentezza sovietica. Tutto in mano a James Cagney.

 

uno due tre dita

 

Cagney in realtà era stato per decenni un attore durissimo da gangster movie. E nei gangster movie era il peggiore, il più pericoloso, il più cattivo, il più spietato. Era stato nei film degli anni ‘30 più violenti, quelli per i quali poi è stato creato il codice di autoregolamentazione Hays, e soprattutto era molto legato a La furia umana di Raoul Walsh, film in cui interpreta un gangster che spaventa anche gli altri detenuti della prigione in cui è rinchiuso. Certo era anche stato in film di successo come Ribalta di gloria, dove il tono era tutt’altro e aveva una preparazione completa come dimostra con Bob Hope in Eravamo sette fratelli ma è chiaro che con quella faccia e quel grugno era legatissimo ai film duri.
Uno, due, tre sarà un tour de force anche per un veterano come lui, tanto che dopo quel film chiuderà con il cinema per 20 anni, per poi tornare a recitare in Ragtime.

 

 

Condito con una serie di battute fulminanti, le migliori del duo Diamond/Wilder (forse solo Non per soldi ma per denaro rivaleggia quanto a densità), Uno, due, tre che già nel suo titolo ha un’indicazione di ritmo, già nella presentazione ha un’idea di velocità come solo Mad Max:Fury Road decenni dopo proverà a sintetizzare già nella propria sinossi, è la macchina-cinema che si trasforma da treno in tornado, capace di attirare tutto verso il proprio centro (Cagney), un esperimento eccezionale di one man show, in cui l’impressione è che sia il personaggio principale a tirarsi dietro tutta la troupe, affannata nel dover tenere il suo ritmo inafferrabile.

 

 

Ed è proprio con questa impostazione che il film riesce a diventare già formalmente la rappresentazione della macchina tritattutto capitalista. Se, infatti, l’opposizione comica sta nel raccontare la guerra fredda ridicolizzando i comunisti, non è meno spietato il ritratto più sottile dell’inarrestabile macchina americana, che sembra sempre impostata militarmente, che non si ferma davanti a nulla e davanti a sé ha sempre e solo l’arricchimento e l’avanzamento lavorativo. L’eccezionalismo statunitense è ovunque in questo film che umilia i sovietici (Wilder allievo di Lubitsch cita anche i tre inviati clowneschi del regime di Ninotchka con i tre burocrati che trattano con McNamara e si lasciano ammaliare dall’occidente e dalla sua segretaria) ma dipinge il capitalismo come l’apice della truffa. McNamara, che ne è il campione, è sostanzialmente un imbonitore, un truffatore che frega tutti con le doti americane, con la parlantina e la capacità di adattarsi e risolvere. Lo stesso indomito spirito statunitense che gli consente di trionfare è anche quello che lo fa apparire come una maschera che sotto non ha niente.

 

uno due tre brandeburgo

 

Nei giorni in cui il film veniva girato i tedeschi stavano costruendo il muro, quindi di fatto contiene alcune delle ultime immagini filmate della porta di Brandeburgo senza il muro davanti ed è l’ultima storia d’attualità in cui qualcuno fa avanti e indietro più o meno liberamente tra le due Berlino. Quella che ad oggi ci appare quindi come una satira della guerra fredda molto appuntita, all’epoca era satira pesantissima di fatti non solo cocenti, ma in evoluzione e in peggioramento. Le tensioni erano altissime e a ben vedere, superando l’empatia per un protagonista così efficiente e vulcanico da essere contagioso, i sovietici cialtroni, ma in fondo simpatici e bonaccioni, che ritrae Wilder suonano sempre più sentimentali della macchina inarrestabile che è la Coca Cola, in cui McNamara non ha pietà di niente e il suo segretario (locale) che sbatte i tacchi con fare sospetto ha ogni volta un racconto diverso su cosa faceva e dove era negli anni della guerra. Del resto la stessa moglie di McNamara (personaggio eccezionale che lo ha ben capito e non si fa fregare come gli altri) ad un certo punto di fronte alla sua inarrestabile furia che non ammette repliche lo apostrofa “Mein Fuhrer”.

 

uno due tre soldati

 

Di certo il film, oltre ad alcune delle linee di dialogo più acute di quegli anni (quindi tra le più acute di sempre) e una capacità di prendere in giro l’ossessione umana per il conflitto e la contrapposizione indotta dall’alto ma poi non così condivisa dal basso, contiene anche una delle immagini migliori per raccontare il potere sovietico e come questo vivesse di una continuità immortale fatta di volti sovrapponibili da propaganda pronti per essere sostituiti uno dopo l’altro senza che niente cambi davvero. Un ritratto di Nikita Krushov in una balera di Berlino Est che, scosso dalle musiche dei bagordi occidentali portati da McNamara e dalla sua discinta segretaria (che ha il compito di aiutarlo a corrompere i burocrati locali), cade mostrando che sotto ce n’è uno identico di Stalin. Era questo quello di cui gioiva l’America davanti a Uno, due, tre mentre non si accorgeva di essere ritratta come la punta massima come un circo ambulante che sacrifica sull’altare del risultato ogni principio.

 

uno due tre ritratti

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