Il Bad Movie della settimana è Wonka, di Paul King, disponibile al cinema.

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Premessa

Miliardari. Tycoon. Capitalisti. Adulti, infantili o quando erano poveri. Quello protagonista del film di Paul King è il terzo Willy Wonka visto al cinema dopo il primo interpretato da Gene Wilder nel 1971 e il secondo da Johnny Depp nel 2005. Qui ci concentriamo per cercare di capire come è stato rappresentato ogni volta lo squinternato imprenditore nato dalla fervida immaginazione di Roald Dahl quando il romanzo La fabbrica di cioccolato uscì per la prima volta nelle librerie inglesi il 17 gennaio del 1964. Per arrivare al cinema dobbiamo però partire dalla pagina scritta.

“E questo matto chi è?”

È la domanda a fine libro che fa Nonna Josephine quando Wonka irrompe con Charlie e Nonno Joe dentro la catapecchia dei Bucket sfondando il tetto con l’ascensore di cristallo che si alimenta ad energia zuccherina. Partiamo dunque dal libro. Visto che Dahl è stato recentemente al centro di controversie per alcune correzioni apportate al suo corpus letterario specifichiamo che quando citiamo il libro ci riferiamo all’edizione italiana per i tipi di Salani, collana Gli Istrici, quinta ristampa del 1996 con traduzione di Riccardo Duranti. Il genio dei dolciumi che non si vede in città da 10 anni è un uomo maturo che dice di essere: “Molto più vecchio di quanto non pensiate”. Si presenta con una tuba nera, giacca a coda di rondine di un bellissimo velluto color prugna, pantaloni verde bottiglia, guanti grigio perla. Possiede una barba a pizzetto (nessun attore la sfoggerà mai). Osserva il mondo attraverso “occhi di una luminosità meravigliosa” che poi ci verranno specificati come “scintillanti” e soprattutto “azzurri” (cose che rendono Gene Wilder perfettamente aderente da questo punto di vista). Quando si manifesta ai cinque ragazzini invitati a visitare la sua fabbrica Dahl lo descrive come “un vecchio scoiattolo furbo che guizzava da un albero all’altro”.

Nelle scarne vignette del grande disegnatore Quentin Blake, autore spesso coinvolto per raffigurare le opere di Dahl e presente con immagini di accompagnamento nell’edizione Salani, Willy Wonka è un vecchio signore dal naso lungo, capelli scarmigliati, gigante papillon, tuba imperiosa. Ma torniamo a Dahl. Lo descrive saltellare su e giù e ridere quando Augustus Gloop viene risucchiato dal tubo. Ma il Wonka di Dahl non è né maleducato (la maggior parte delle volte) né tantomeno sadico. Più che altro è “solo” completamente pazzoide e sicuramente l’isolamento in fabbrica con la sola compagnia degli Umpa Lumpa deve averlo reso socialmente alienato. Eppure stringe le mani come un buon affarista, ricorda i nomi dei visitatori e non è inizialmente maldisposto. La sua esasperazione cresce pagina dopo pagina quando Augustus, Violetta, Veruca e Mike Tivvù si comportano in modo indisciplinato non seguendo i suoi consigli durante il tour nelle stanze magiche della sua mirabolante fabbrica di cioccolato. Forse l’unico dei bimbi che non sopporta fin dall’inizio è Mike Tivvù, accusato da Wonka di “bofonchiare” e non parlare in modo corretto.

veruca salt

Dal punto di vista fisico lo stato di esaltazione pressoché perenne nella quale si trova lo aiuta a saltellare, correre e zompettare praticamente per tutte le pagine del romanzo. Ciò che lo rende a volte aggressivo, ripetiamo, è l’ignoranza nei confronti delle sue invenzioni e l’ingordigia del bambini che non ascoltano le sue giuste avvertenze quando i suoi magici gingilli sono ancora sperimentali. Sessualmente? Arguiamo sia un eterosessuale poco carnale oppure un gay nascosto. Commenterà fuggevolmente di non essere mai stato sposato. Forse oggi si direbbe un asessuale, come dichiara di essere Duccio Patanè nell’ultima stagione della serie tv Boris. Dieta? Willy Wonka è attento al diabete perché mangia “pesce, cavoli e patate”. Considerati dolci, caramelle, “gomme pranzo” e altre gustosissime diavolerie presenti nella sua azienda, la sua dieta ha un che di ascetico. Ogni tanto sbrocca del tutto (ma forse vuole irritare il suo odiatissimo Mike Tivvù) dicendo cose strane come: “I fiocchi d’avena sono fatti da quei riccetti di legno che escono dai temperini”. Poi magari insulta all’improvviso la mamma di Veruca Salt (“Cara la mia vecchia triglia, perché non va a farsi friggere?”) ma nel complesso il Willy Wonka di Dahl è solo squinternato e distratto dalle sue attrazioni. Una sua caratteristica esilarante è che, come ogni scienziato mattoide, spesso non conosce possibili esiti di combinazioni rocambolesche vivendo però quest’incertezza con l’enorme, estasiata curiosità del bimbo piuttosto che con il senso di responsabilità, e timore, dell’adulto. Questo disorienta assai i genitori dei cinque piccoli visitatori della sua fabbrica.

È sinceramente contento che nonostante tutti gli incidenti cui sono andati incontro i quattro giovani visitatori tranne Charlie, alla fine i malcapitati siano di fatto tutti sopravvissuti. Mai dimenticare che li riempirà di una scorta di “dolciumi a vita”. Sport preferito? Forse il basket visto l’accenno che fa alla pallacanestro in relazione a Mike Tivvù. Da non sottovalutare il suo sincero affetto per gli Umpa Lumpa che, nelle pagine finali, diventano addirittura da fedeli servitori a gente di famiglia quando Willy Wonka specifica che lui vuole lasciare la fabbrica a Charlie anche perché gli Umpa Lumpa, altrimenti, non avrebbero più un posto dove andare dopo la sua morte. Questo è magnifico come identità del tycoon. Ci piacerebbe ritrovare anche solo minimamente questo tipo di umanità e rispetto nei confronti dei propri operai in un qualsiasi padrone di fabbrica o capitalista italiano o straniero. E ora passiamo al cinema.

Gene Wilder

Wilder

Sono in tanti che vorrebbero essere Willy Wonka per il film del 1971. Il punto di riferimento del primo David Bowie ovvero il poco conosciuto in Italia Anthony Newley e addirittura tutti e sei i Monty Python, reduci nel 1971 da due anni di successo strepitoso in tv, specialmente presso collegiali e bambini, con il loro rivoluzionario show comico surrealista Monty Python’s Flying Circus. Ma Gene Wilder li batte uno per uno in fase di provini ed ecco il suo Willy Wonka che non piace allo sceneggiatore del film Roald Dahl (pare scrissei l film controvoglia e soprattutto disinteressato). Occhi azzurri dicevamo aderenti al testo. Zero pizzetto. È un simulatore altrimenti non si spiegherebbe nella sua entrata in scena tutta quella pantomima fingendosi zoppo per poi fare una capriola davanti al pubblico (ideona imposta da Wilder alla produzione per spingere subito il pubblico a non fidarsi di quell’individuo). È entusiasticamente affettato quando conosce bimbi e genitori.

Wilder ha 38 anni quando lo interpreta e lo fa chiaramente adulto e meno spiritato rispetto a Dahl. I boccoli biondi e gli occhi blu lo rendono quasi un cherubino dell’iconografia cristiana. A renderlo laico questo strano abbigliamento colorato molto più sgargiante rispetto alle vignette di Quentin Blake dove la tuba da nera si fa arancione. Si produce in un bellissimo numero musicale (lo stesso ripreso da Chalamet in Wonka) in cui pare trasognato ma poi si incavola non poco quando Augustus contamina il fiume di cioccolata con le sue mani. Wilder lo fa estremamente ambiguo. A volte sembra distratto quasi come se non capisse ciò che accade oppure lo vediamo improvvisamente ghignare per quello che succede. Una caratteristica ci colpisce molto del suo Willy Wonka rispetto a Dahl, Johnny Depp e Chalamet: egli è un ostinato citazionista.

wonka gene wilder

Parte da Oscar Wilde (“The suspense is terrible. I hope it’ll last”; frase usata da Chalamet a fini promozionali) per arrivare a Lord Byron passando per tanto Shakespeare (Il Mercante di Venezia, Romeo e Giulietta) e i poeti Ogden Nash, John Masefield, Arthur O’Shaughnessy e addirittura il latino Quinto Orazio Flacco. Quindi un amante di aforismi ed evidentemente un uomo di cultura che ama farlo sapere in giro. La parola chiave per il Wonka di Wilder, ma ci permettiamo di dire per tanto Gene Wilder in generale, è una sola: rabbia. Mel Brooks diceva che lo faceva incavolare apposta sul set di Frankenstein Junior perché quando l’attore si innervosiva trasudava poi energia da tutti i pori. Il suo Wonka è il più furente di tutti, da Dahl a Chalamet passando per Depp. La voce che monta, gli occhi che si dilatano e le parole che vengono scandite. Un vezzo dell’attore che diventerà un classico di Wilder anche quando avrebbe urlato la frase cinematografica di culto: “It… could… work!” in Frankenstein Junior (1974) tre anni dopo Wonka. Grande differenza con il libro: il suo Wonka si infuria nel finale con Charlie perché il bimbo ha barato e non ha rispettato le regole del contratto truffaldino che Wonka gli ha fatto firmare (buffo: al Wonka di Chalamet accadrà esattamente il contrario perchjé sarà lui a firmare un accordo truccato). Emerge alla fine del film la grande solitudine di un uomo paranoico (ha cercato di corrompere i bambini per vedere di chi si potesse fidare), irascibile, sostanzialmente disperato. Che il Willy Wonka di Gene Wilder sia un adulto sull’orlo di un verace e realistico esaurimento nervoso, da scoprire solo quando Nonno Joe e Charlie entrano nell’ultima stanza dove Wonka scrive qualcosa di misterioso visibilmente angosciato, rende il finale ancora più convincente ed emozionante. Charlie è riuscito a convincere un vecchio disilluso dallo spionaggio industriale che ci possa essere nel mondo un vero erede della sua filosofica industria dolciaria.

La fabbrica di cioccolato Willy Wonka

Depp

Tutta un’altra storia rispetto a Wilder. Bambinesco, androgino (Roger Ebert nella sua recensione dice che somiglia a Carole Burnett; noi aggiungiamo che il taglio di capelli a caschetto è quello di Anna Wintour) e da piccolo traumatizzato dal papà dentista (chiaramente la versione con Chalament deve “uccidere” questo passato). Vocina (impossibile non pensare a Michael Jackson come scrive anche Ebert), risatine che sembrano squittii, ogni tanto pare avere conati di vomito, guanti cacofonici per quanto sono plasticamente rumorosi, cartoncini su cui leggere cosa dire perché incapace di parlare a braccio in pubblico, impossibilitato a pronunciare la parola “genitori”, proprietario di dentoni più scintillanti degli occhi. Se Wilder è il tycoon del ‘900 autorevole, leggermente inquietante e genitoriale, Depp propone il classico giovane nerd disadattato e anaffettivo, perfetto per la generazione millennial, che negli anni 2000 è il nuovo capitalista della contemporaneità, da Steve Jobs a Mark Zuckerberg. Sempre più apparentemente debole nelle sue insicurezze che non responsabile delle sue azioni, più da compatire che eventualmente contestare. Il perfetto capitalista-vittimista demagogo di oggi. Depp lo recita a 42 anni di età. Francamente non ci sembra una persona di enorme cultura e infatti si passa dalle citazioni di Shakespeare e Orazio al musical Hair come unica smaccata reference (“Good morning starshine. The earth say hello”).

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Non ama essere contraddetto, sessualmente è ancora più indecifrabile di Wilder e nel suo passato (sovraesposto attraverso flashback che annullano ogni mistero) c’è un padre dentista imponente come Christopher Lee all’epoca dentro enormi progetti cinematografici per il giovane pubblico dalla saga da poco conclusasi Il Signore degli Anelli (2001-2003) ai nuovi Star Wars. È un Wonka afflitto da sindrome dell’abbandono, narcisista e complessato da psicanalisi (ci andrà effettivamente). Staremo spesso nei suoi ricordi e nella sua testa visto che Willy pare essere scosso da ricordi emblematici del suo rapporto difficile con papà solo durante (debolezza della sceneggiatura) quella gita dei cinque prescelti nella sua fabbrica. Con l’ottimo Charlie di Freddie Highmore (in quegli anni si contende con Josh Hutcherson il ruolo di star bambina di Hollywood) si instaura subito un rapporto dove Charlie sembra il padre e Willy il figlio balbettante. Per enfatizzare la sua goffaggine il regista Tim Burton, sempre attraverso lo sceneggiatore John August, lo fa andare spesso a sbattere contro dei vetri trasparenti come la gag di Stefano Accorsi in Santa Maradona di Marco Ponti. Ad aggiungere frivolezza al suo personaggio ecco la motivazione circa l’idea del tour e della scelta dell’erede: un singolo capello bianco trovato durante una sessione dal barbiere Umpa Lumpa. Alla fine l’idea alla base della versione del 2005 firmata Tim Burton è questa: Charlie avrà una fabbrica (soldi) e Willy un’intera famiglia acquisita (umanità). Ognuno andrà a risolvere la sua mancanza iniziale. La domanda che uno si fa dopo la visione di questo Willy Wonka è: ma come è riuscito a creare tutti quei dolci e leccornie straordinarie quel disadattato tremebondo chiamato giustamente “jerk” o “idiota” da alcuni personaggi secondari del film? Gene Wilder lasciava trasparire maggiore ingegnosità. Probabilmente se la fabbrica è riuscita a sopravvivere tutti quegli anni è stato merito degli onnipotenti Umpa Lumpa, tutti interpretati da Deep Roy. Effettivamente a ben pensarci fanno quasi tutto loro nel film e nella fabbrica. Anche i narratori.

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Chalamet

E il nostro Timothée? Che Wonka è? In linea con altre prove dello James Dean della Gen Z ci appare come smilzo all’inverosimile, con un abbigliamento che ricorda i rocker inglesi che si vestivano a Carnaby Street con foulard annodato al collo (che prende il posto del papillon gigante di Wilder) e giacche di velluto con stile scapigliato, sgualcito e trasandato al punto giusto. Ricorda assai il primo leader dei Pink Floyd Syd Barrett (Chalamet sarebbe perfetto per un biopic sul geniale musicista con ingrassamento finale da Oscar). Questo Wonka è giovane (Chalamet ha 27 anni), con solo sei sovrane in tasca quando arriva nella simil-Londra del film di Paul King, analfabeta su tutto tranne la cioccolateria (ecco spiegata quella voglia di cultura e citazioni crescendo e “diventando” Wilder?), affamato e infreddolito. Chalamet è uno di quegli attori che se ha freddo, eccoci pronti a portargli 1000 coperte di lana per riscaldarlo. Il carismatico attrattore d’affetto nato a New York City interpreta un Wonka ingenuo, che non sa leggere, più dolce dei dolci che già sa inventare grazie agli insegnamenti della mamma zingara.

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Elemento politicamente interessante rispetto al presente: i Wonka mamma e figlio dei flashback sono chiaramente dei gitani, migranti, curiosi di visitare il mondo, mai troppo a lungo in uno stesso posto. Con flashback che riguardano mamma (la sempre vitale Sally Hawkins magnifica nei due Paddington diretti da King) e non papà rispetto a Burton (ecco perché la produzione ha scelto di affiancarlo a Gene Wilder come idea di sequel), il suo Wonka arriva in città per stazionare e aprire il suo negozio. Altro che fabbrica. È un Willy idealista che va aiutato e ha drammaticamente bisogno degli altri: dall’orfana in gambissima Noodle (Calah Lane) che gli insegnerà a leggere all’Umpa Lumpa simile a un Hellboy in miniatura Lofty di uno Hugh Grant damerino facente parte di un popolo da non colonizzare o blandire in due secondi come ai tempi del tycoon dell’Occidente conquistatore Gene Wilder o del nerd disadattato Johnny Depp. La critica si è divisa sulla prova di Chalamet. Noi lo troviamo perfetto per rappresentare un Wonka incantevole e irresistibile nella sua povertà materiale ma ricchezza di spirito e umanità. Saranno cavoli se il film dovesse fare il botto a livello di incassi per immaginare un sequel che lo avvicini sempre di più al Wonka maturo di Wilder. Ma è la contemporaneità bellezza e abbiamo già affrontato l’argomento nel saggio sulla crisi Marvel: oggi in queste produzioni su marchi e saghe da reimmaginare e reinventare è il percorso editoriale che conta. Se mancherà uno schema solido ce ne accorgeremo subito. Al momento il terzo Wonka della Storia del Cinema ci porta dentro le speranze, le delicatezze e le debolezze della generazione z dove, grazie al cielo, sta tornando la voglia di fare squadra e vedere nel femminile la guida giusta per domani. Chalamet, da questo punto di vista, è veramente il Wonka perfetto.

Conclusioni

Tre Wonka per tre epoche e sensibilità diverse. Il capitalista mattoide in cerca di un figlio (Gene Wilder), il nerd anaffettivo che deve uscire dall’autoreferenzialità (Johnny Depp) e il povero sognatore che ce la farà solo con l’aiuto degli altri (Timothée Chalamet). Sempre partendo dal bizzarro capitalista nato dalla testa di un maestro idiosincratico e scorbutico come Roald Dahl.

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