Hayao Miyazaki dice che realizzare film è solo una sofferenza. Lo confermo“. È la frase usata da Xavier Dolan per annunciare la sua intenzione di ritirarsi dalle scene. Per lo meno da un cinema che non sente più suo. Poche le possibilità di essere visto, molti gli sforzi, le ansie, le responsabilità. Non ce la fa più. È una “crisi di mezza età” di quelle tipicamente cinematografiche. Arrivano all’improvviso quando vogliono loro, anche quando sei un regista di 34 anni. Altre volte vengono accuratamente pianificate. Ne sa qualcosa Quentin Tarantino, che da un pezzo si è dato dei tempi precisi di luna di miele e di abbandono. Presto, stando a quanto dice, anche lui si dedicherà ad altro

Per Xavier Dolan ci sono ancora dei progetti televisivi in sospeso che ha intenzione di onorare (sempre che gli diano il via libera), ma poi basta. “Quello che una volta mi sembrava una necessità, un bisogno, è diventato qualcosa di secondario”, dice. Enfant prodige a tutto tondo, precoce nel successo, precoce nella crisi.

A che punto è Xavier Dolan nella sua carriera?

Era da una decina di anni che non si parlava così poco di Xavier Dolan come è successo negli ultimi due. Per un decennio si è mosso nel cinema come una star. Ha costruito una fanbase di nicchia, ma (in proporzione) attiva, protettiva e giovane quanto quella di un Timothée Chalamet. Attivissimi nei festival, questi hanno consolidato la fama del regista e attore, come di un autore completo. Una personalità di culto, con uno stile e una poetica ben identificabile. Il livello di ingresso per una generazione di cinefili. Ha accompagnato il pubblico giovane nel cinema più impegnato, quello da festival, prendendo e nobilitando il linguaggio audiovisivo emergente. Il modo in cui gira, in cui sceglie i costumi, i colori, e i formati l’ha reso per un periodo la migliore espressione del linguaggio di una nuova generazione. Poi qualcosa si è rotto.

Nel 2008 si prendeva una fucilata nei panni di Antoine nel durissimo Martyrs. L’anno dopo Xavier Dolan presentava a Cannes J’ai tué ma mère. A soli diciannove anni. Da lì in poi è stata una corsa a capofitto per il Dolan regista. 8 film in 10 anni, molti dei quali hanno consumato le tastiere dei critici e dei saggisti. In mezzo, due eventi che molti dei registi non raggiungono in una carriera intera. Il primo fu Mommy: il film che gli spalancò le porte oltre la nicchia festivaliera. L’opera irraggiungibile, quella che devi augurarti di non fare troppo presto. Perché quando vieni premiato in ex aequo con Jean-Luc Godard al festival di Cannes e hai 25 anni ti trovi di fronte tre possibilità: o deragli completamente. O cerchi di ripeterti. O giri un videoclip.

Il secondo evento cardine nella carriera di Xavier Dolan è un lavoro a cui, probabilmente, ha molto pensato prima di prendere la decisione di lasciare il cinema (ma non l’audiovisivo). Il videoclip di Hello girato per Adele. Con quello si è capito che il marchio Xavier Dolan non è un modo di raccontare le storie, ma un modo di intendere e filmare le emozioni. La musica in primo piano, i gesti che l’amplificano, la fragilità di un ricordo, l’enfasi epica delle piccole cose: una cornetta alzata come l’azione che può cambiare il mondo. Per fare questo, non serve per forza un lungometraggio in sala.

La sua è una crisi inevitabile?

Non considero l’arte priva di significato né il cinema uno spreco di tempo. L’arte offre rimedio alla nostra realtà soffocante e salva vite. Sarò sempre pronto a incoraggiare artisti e registi. Semplicemente non desidero più fare film perché non mi rendono più felice. Ma lo hanno fatto e così anche voi.

Scrive così Xavier Dolan per motivare la sua decisione. Questa gioia di fare film che ora gli manca è proprio quella che ha reso speciali le sue prime opere. Quell’ingenuità giovanile, l’assenza di controllo insieme a una grande consapevolezza del mezzo, che gli hanno permesso di dire cose spesso già analizzate da altri ma enunciate in una maniera più fresca. È normale quindi per un artista come lui, da sempre incastonato nel mondo dello spettacolo, usare la felicità che prova nell’affrontare la produzione come un criterio per restare o andarsene. 

C’è chi fa cinema solo per passione. Sono pochi. C’è chi fa cinema perché è (anche) un lavoro. Sono molti di più. Sono i mestieranti, coloro che hanno un talento, una passione, ma anche la necessità di pagarsi le bollette. Vale anche per i Maestri. “Uno per loro, uno per te” dicono spesso i registi più affermati. Significa che hanno imparato ad accettare di fare un film per l’industria, per poter poi gettarsi nei progetti più personali. 

Quando le forze e l’insolenza della giovinezza vengono a mancare, subentra la fatica, la quotidianità, il lavoro insomma. Ma che cosa resta di Xavier Dolan se privato proprio di quell’energia dei suoi film migliori? Quelli che fanno trasparire tutta la voglia di mettere in scena solo per il gusto di arrivare all’emozione più spettacolare, all’immagine più impattante. Fare cinema per vedere che succede, fregandosene di tutto il resto.

Era inevitabile quindi una crisi del genere nella carriera di Xavier Dolan, quando questo non è più stato possibile. Ed è anche una crisi salutare. Difficile credere che sia un “per sempre”. Assomiglia di più a una pausa per caricarsi di nuove energie, quelle della maturità.

xavier Dolan

Il punto di rottura

Anche se finisse qui, senza riprendere mai più la cinepresa, la carriera di Xavier Dolan sarebbe più lunga di quella di molti altri registi. Sbilanciato a tre quarti c’è però un punto di scissione importante. Si chiama La mia vita con John F. Donovan. Il primo pesante insuccesso della sua carriera. Forse il film più importante che abbia mai fatto. Perché è difficile lasciare, quando tutti credono che il film successivo sarà ancora più potente del precedente, e soprattutto è difficile farlo quando effettivamente si riesce a mantenere questa crescita. Quando però qualcosa si rompe, si perdono gli appoggi per fare il salto successivo (quello in lingua inglese nel caso di John F. Donovan), per andare avanti serve trasformare la passione in mestiere. Si diventa registi completi anche conoscendo il fallimento e liberandosi dalla paura di incontrarlo.

Matthias & Maxime è stato poi sfortunato. Con una distribuzione resa complicata in molti territori dall’uscita in periodo pandemico. Nella lettera di Dolan c’è un altro appunto, forse più uno sfogo, sull’essere visti. È difficile perdere il potere verso l’industria, quella che prima delle cadute gli avrebbe affidato di tutto. È difficile faticare a far arrivare i propri film al proprio pubblico. Dolan ribadisce però una cosa importante, che molti registi faticano a dire, per eleganza o per timidezza: si fanno i film perché vengano visti. L’arte senza un pubblico perde il senso di esistere. 

Xavier Dolan

L’eco-ansia di Xavier Dolan

Potrei dirigere delle serie, ma non voglio più dirigere film. Il mondo non se la sta passando bene… e voglio dare il mio contributo il più possibile. Lo sto facendo in silenzio già da un po’, ma voglio parlarne più apertamente d’ora in poi.

Uno dei passaggi più criptici della lettera ai fan è questa eco-ansia. L’idea che il mondo stia andando da una parte e il cinema non muova di un millimetro le cose. Traspare però ancora la voglia di contare, di essere presenti, di influenzare. Per questo la crisi nella carriera di Dolan arriva ora come un momento positivo di ripensamento molto coerente. Il primo fallimento è stato il momento di accesso alla maturità, a uno nuovo pensiero sul proprio ruolo e sulla propria arte. Questo processo, normale nella vita di un artista, spesso porta ad un secondo tempo nuovo, diverso, e quindi che sa ancora essere interessante.

Bisogna solo pazientare per capire cosa deciderà di fare Xavier Dolan in futuro, se racconterà altre storie, se troverà nuovi modi di esprimersi, o se costruirà veramente una casa con i suoi amici per guardare il mondo che muore. A 34 anni c’è ancora tutto il tempo per cambiare idea.

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