[Berlinale 2015] The club, la recensione
Un'altra prigione, questa volta più stretta, anima un film di Larrain. The club si astrae dal Cile e racconta l'oppressione e il potere in maniere nuove
A rompere quest'equilibrio arriva subito un altro prete, la cui presenza è imposta proprio dalla chiesa, costui anche ha qualcosa per cui essere nascosto, forse più grosso degli altri, tanto che solo poche ore dopo il suo arrivo qualcuno, dalla strada, comincia ad urlare le accuse, mette in piazza i suoi misfatti, attira l'attenzione, rivela dettagli orribili. Il prete, a sorpresa, si suicida immediatamente.
Così inizia un film lungo il quale sentiamo la mano di un potere che opprime delle vite (di certo non di santi) a tantissimi livelli diversi per riportare una forma di equilibrio in quello che considera un suo protettorato, una zona su cui deve comandare. Un potere che ha un emissario e che tuttavia non percepiamo mai come chiaro. Cosa voglia, che pretenda, quali siano i suoi piani sono questioni oscure, quello che è certo è che fa imporre il suo volere e non senza violenza.The club somiglia a Post mortem, è un film al crepuscolo in cui nulla è mai illuminato veramente bene e nel quale questi esseri umani nascosti da tutto, tramano, si agitano, cercano di vivere una vita benchè siano rassegnati all'oppressione. Conoscendo la filmografia e le idee degli scorsi film di Larrain è facilissimo vedere in questo una piccola sineddoche del Cile di Pinochet, ma in questo caso sarebbe una prospettiva limitante.
Sembra abbastanza evidente che nonostante le esperienze personali e del propio paese a Larrain stia a cuore come gli esseri umani possano vivere sotto un controllo pesante, come si possa tirare avanti nella paura e attraverso quali meccanismi diabolici qualsiasi potere riesca a cambiare le persone che controlla. The club per la prima volta allarga la prospettiva, tenta un discorso più universale occupandosi di qualcosa di più specifico.