Devilman Crybaby: la recensione
La recensione della serie anime di Netflix che racconta ancora una volta il mito di Devilman
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Il nucleo centrale della vicenda rimane lo stesso. Il misterioso Ryo Asuka rivela al suo amico d'infanzia Akira Fudo il più terribile dei segreti: l'esistenza dei demoni. Per combattere le creature mostruose, lo stesso Akira viene posseduto dal temuto e potente demone Amon. Ma la possessione non è completa, e il giovane si trasforma in un Devilman, una creatura con un corpo di demone, ma un cuore umano. Sullo sfondo del disperato scontro con i demoni, si consuma una lenta, ma tragica apocalisse umana, in cui è proprio la razza pura che Akira vorrebbe difendere a macchiarsi dei crimini più violenti. Nonostante alcune punte di bontà, rappresentate dalla famiglia Makimura presso cui vive Akira, qui il centro del conflitto si sposta presto dalla necessità di sopravvivenza a domande più incisive. L'umanità merita la salvezza?
Il tratto e la regia di Yuasa, che non mancheranno di indispettire alcuni puristi dell'opera originale, conferiscono un'anima propria e forte a questo Devilman. La sensazione è che, molto più della serie degli anni '70, lontana dal manga e destinata a un pubblico più giovane, ma anche della trilogia di OAV (2+1 in realtà), più fedeli, ma meno coesi dal punto di vista stilistico, sia questa la versione di cui Devilman oggi aveva bisogno. Le differenze non mancano. Smartphone e tecnologie contemporanee spostano l'ambientazione ai giorni nostri, l'intreccio si sviluppa tramite personaggi e situazioni del tutto inedite, in certi casi – come il demone Siren – c'è anche un intervento sulla personalità. Yuasa ha una visione più passionale (diremmo quasi erotica) che ideale del conflitto tra demoni e umani, e sembra che ogni decisione in tal senso sia presa proprio per accentuare questa caratteristica.In un momento in cui su Netflix lo stile di Hiroyuki Seshita (Knights of Sidonia, Blame!) rischiava di uniformare i prodotti animati originali, la visione di Yuasa è una boccata d'aria fresca. Lo è per modo di dire, dato che in realtà la sua visione si conferma asfissiante quando non disturbante o sgradevole. Corpi che si muovono, allungano, deformano e a volte squarciano in fondali fin troppo immobili e spogli. Non c'è l'esasperazione cromatica e lo stile ipercinetico di Mind Game, Tatami Galaxy o Ping Pong (per chi conosce i suoi lavori questo è uno Yuasa molto più controllato del solito), ma Devilman Crybaby rimane un lavoro che trasuda una forte personalità sempre al servizio della storia. Una storia che sa anche quando non prendersi del tutto sul serio, come dimostrato dai molti riferimenti metanarrativi all'anime degli anni '70.
La stagione risente di alcune brusche accelerazioni, passaggi a vuoto e situazioni forzate dal punto di vista della scrittura. Miki Makimura ad esempio rimane un personaggio stucchevole, più simbolico che altro. Nel finale si avverte qualche eco visiva dell'apocalisse di Evangelion, probabilmente favorita dai riferimenti biblici, ma va detto che la serie non si tira indietro. D'altra parte i corpi frementi nella corsa, nella lotta o nell'atto sessuale che vedremo qui hanno una loro coerenza stilistica e perfino tematica con ciò di cui si parla. L'assimilazione finale, in tutti sensi concepibili, tra umani e demoni, contrapposti, ma in fondo non così diversi, lascia spazio a considerazioni fin troppo palesi su appartenenza e cultura del sospetto. C'è da sperare che nel futuro Netflix continui a favorire l'impronta personale degli autori coinvolti nelle produzioni animate.