Coerentemente con il titolo, l’articolo che vi apprestate a leggere contiene importanti spoiler sulla terza stagione di Non ho mai lo show di Mindy Kaling e Lang Fisher disponibile su Netflix. Proseguite la lettura con cautela.

Non ho mai… fatto come tutti gli altri

C’è un’idea ricorrente nel sogno adolescenziale americano raccontato al cinema. Il viaggio. L’autonomia raggiunta con l’allontanamento da casa. Si diventa grandi quando si riesce a camminare con le proprie gambe, senza più l’appoggio dei genitori. 

È un modo di intendere lo sviluppo dei giovani cittadini ben inserito anche nel sistema sociale statunitense. Le istituzioni che circondano la vita dei giovani creano numerose occasioni per sperimentare la distanza. Gli scambi studenteschi sono una parte importante, seguita poi dall’evento, quasi iniziatico, del trasferimento al college. L’anomalia è restare, lo scopo della formazione scolastica è preparare ad andare via. Vederlo dall’Italia, un paese che – per svariate ragioni non solo culturali – ha un’età media di 30 anni per l’uscita di casa, colpisce sempre.

Nei film e le serie TV il successo si misura in miglia. Notate: più lo studente è meritevole e più viene mandato lontano. Chi è costretto a restare in zona, nelle stesse strade che percorreva durante le high school, ha fallito. 

Non ho mai … trovato la mia strada

In Non ho mai… si raccontano le prime volte della protagonista Devi Vishwakumar. Una studentessa di origini indiane che si destreggia tra la rigidità della madre e delle tradizioni di famiglia, e la voglia di essere come tutte le sue compagne e anche di più. È pronta per la scalata sociale: diventare la più popolare della scuola mettendosi con il sogno erotico di tutte le ragazze di Sherman Oaks: Paxton Hall-Yoshida.

Arrivati alla terza stagione si è capito da tempo che il punto di tutte le nuove esperienze non è per Devi diventare la ragazza che lei vuole essere bensì fare emergere ciò che è veramente. L’improvvisa morte del padre è un trauma che la porta ad errori grossolani e scelte di impulso che la inchiodano a terra. Nelle prime due parti di Non ho mai… l’assenza è stata processata insieme alla famiglia, agli amici e alla terapista, sempre con il tono scanzonato che caratterizza la serie. 

Ora il fantasma del padre è quasi completamente svanito. Solo in un momento rientra prepotentemente in scena, causando un attacco di panico poco prima dell’esibizione al concerto di fine anno. L’esito è completamente diverso sulla ragazza. Le è molto più semplice ora fare esperienza della sua emozione, continuare a vivere pur con il suo dolore. Ora la paura è di dimenticarlo, di lasciarlo andare troppo in là da non riuscire più a vederlo. 

Devi non può quindi, come i suoi coetanei, solamente allontanarsi e andare avanti a vivere ricercando il suo futuro. Lei con il passato ha già dovuto rompere i ponti crescendo più di quanto le fosse richiesto a quell’età.

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Una serie sulla pressione sociale

Però è anche una studentessa brillante, e come tale deve venire premiata. Riceve una borsa di studio per allontanarsi da Sherman Oaks e trascorrere l’ultimo anno in un liceo prestigioso. Per tutti i suoi coetanei è una “non decisione”, la risposta alla chiamata deve essere affermativa.

Qui interviene la differenza culturale. Devi è una seconda generazione. Una ragazza senza appartenenza? Niente affatto! Lei è sia americana sia indiana ed è riuscita piuttosto bene a conciliare queste due prospettive dentro di sé. Sono le rispettive culture che invece non vanno d’accordo. Il grande senso del dovere, della famiglia, e dei tempi della vita imposto dalla madre stride con la libertà di sperimentare, e anche di sbagliare, delle famiglie dei suoi coetanei. In una cosa però entrambi i nuclei genitoriali remano nella stessa direzione: la ricerca dell’eccellenza.

Rifiutare quindi il premio datole dal liceo, restare a casa e ricevere un’istruzione di minore qualità, mettere da parte il desiderio dei genitori di avere sempre il meglio per lei (che è anche il motivo per cui hanno intrapreso il viaggio verso la loro nuova casa), significa deludere tutti. Per Devi lo è ancora di più, è non rispettare il desiderio e il progetto che il padre aveva su di lei.

Così Kaling e Fisher scrivono un piccolo colpo di scena rivoluzionario per il genere dell’high school movie. Perché Devi resta, e sua mamma lo capisce. La sceneggiatura scrive la scelta di non andare verso la grande occasione offertale come il culmine di un processo di maturazione. Perché ha capito che quello che è bene per tutti non necessariamente lo è per lei.

Dopo una serie passata a realizzare le aspettative degli altri, o i sogni di conformismo, Devi va in una direzione diversa e controcorrente. La sua direzione. Per tutti gli altri è un gesto quasi scandaloso il suo: uno sputo in faccia alla fortuna, uno spreco di talento. Ma poi, pian piano, tutti gli amici mettono da parte la maschera imposta dai ritmi scolastici e si dimostrano molto più simili a lei. Sono contenti che resti, hanno paura di partire, hanno paura di restare soli e di fare nuove esperienze prima di sentirselo veramente.

Non si cresce tutti allo stesso tempo, ognuno con il proprio passo. È diritto di ciascuno ascoltarsi e decidere anche di avere ancora bisogno di stare con la mamma. Questa, per una serie che parla di crescita e di prime volte, è la conclusione migliore che si potesse fare.

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