C’è qualcosa nell’ultimo cinema indie duro e puro di David Gordon Green che non quadra. Già Joe (visto l’anno scorso a Venezia) aveva lasciato una forte sensazione di amaro in bocca, ora anche Manglehorn replica quel tipo di estetica e di storia con i medesimi risultati. Al Pacino è un fabbro di chiavi, un uomo decaduto, una volta idolo di tutti e ora scontroso e antipatico che vive in un’eterna celebrazione del culto di una donna avuta ma non mantenuta, un amor perduto che lo ossessiona e gli impedisce di vivere il presente. Com’è facile immaginare qualche evento del film gli farà superare questa fase.
É tutto abbozzato in Manglehorn. C’è un figlio che a differenza del padre non conduce una vita umile e semplice da America tradizionale ma ne fa una rampante e audace da America moderna. Vive nella metropoli e non sei sobborghi, lavora nella finanza, è spietato e sofisticato (mamma mia quanto sono brutte le scene in cui questo ci viene fatto capire!) ...
A furia di asciugare lo stile, di ridurre e lasciare che la storia fluisca naturalmente senza forzature di linguaggio in Manglehorn non rimane più niente
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