Il Bad Movie della settimana è Enea di Pietro Castellitto, al cinema dall’11 gennaio

enea e valentino

Premessa

Colpì molto l’esordio alla regia di Pietro Castellitto nel primo anno pandemico I predatori (2020), non solo David di Donatello per Miglior Regista Esordiente nel 2021 ma qualche mese prima pure Miglior Sceneggiatura nella prestigiosa categoria Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia. In quella sezione competitiva si erano visti passare negli anni gente del calibro dei fratelli Safdie (Heaven Knows What, 2014), Ti West (The Sacrament, 2013), Brady Corbet (L’infanzia di un capo, 2015) e le nostre vincitrici di “Miglior Film” Susanna Nicchiarelli (Nico 1988, 2017) e Federica di Giacomo (Liberami, 2016) oltre ai recenti Tizza Covi e Rainer Frimmel dell’ultra-premiato Vera (2022, Miglior Regia e Miglior Attrice). Dove sarebbe andato Pietro Castellitto dopo quella commedia acida su due famiglie romane “una fascista e l’altra borghese” (vai a capire chi è l’una e chi l’altra). C’erano ricchi di sinistra e poveri di destra (ovvero quel mutamento sociale che per primi colsero Bruni e Virzì nel monologo della protagonista di Caterina va in città del 2003) che si incrociavano per via di un incidente stradale.

C’era grande curiosità per la sua seconda regia. Cosa avremmo visto? La risposta è arrivata presto e si intitola Enea, la prova da “sophomore” ancora più bella, coraggiosa e pericolosa rispetto a quell’esordio potente pieno di altolocati sinistrorsi annoiati, armi (pistole Beretta, bombe, mitragliatrici automatiche, mancavano solo i bazooka), fascisti caciaroni che non sapevano uccidere a sangue freddo e forse erano pure buoni, truffatori nichilisti capaci di fottere sia destra che sinistra, intellettuali nietzschiani frustrati e proletari altrettanto avviliti. Stranamente, in quanto millennial (Castellitto è del 1991), il giovane cineasta è ossessionato da categorie che la sua generazione di solito detesta in quanto (c’è da capirli) martoriati fin da piccoli dall’isterico polemismo a trazione berlusconiana da Seconda Repubblica 1994-2013.

Destra & Sinistra tornano sempre nel suo cinema, sia che si tratti di dove si trova la stanza del padre del suo personaggio ne I predatori quando lo va a trovare in ospedale (“È il corridoio a destra” diceva come figlio psicolabile e rancoroso: “No, è quello a sinistra” lo correggevano) sia che siano delle zone dove ci viene chiesto di elencare le cose brutte e le cose belle (“Perché a destra quelle brutte?” chiederà il piccolo bestemmiatore Simone in Enea). Adesso Castellitto sceglie l’isolamento di un luogo solo, non più le confondibili Destra & Sinistra, dove ambientare la sua seconda operetta morale audiovisiva: Nord. Nel senso di Roma Nord.

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Quell’Enea lì

Comparsa dentro l’Iliade, poi protagonista di un altro poema epico classico intitolato Eneide, si dice fondatore di Roma, figlio di un mortale (Anchise) e una dea (Venere), proveniente da Troia quindi turco mediorientale (ci piacerebbe dire dalla pelle olivastra, come fa Dennis Hopper con i neri, usando un altro termine, nel bellissimo monologo scritto dal giovane Tarantino sulla presenza dei Mori in Sicilia contenuto in Una vita al massimo). Quell’Enea lì è protagonista di un’immagine assai piaciuta all’umanità tramandatasi di secolo in secolo ovvero quando si dice che, nella notte in cui gli Achei misero a ferro e fuoco Troia, si caricò in spalla il vecchio padre Anchise per cominciare il suo lungo viaggio verso l’Italia. La cosa più simile vista recentemente dalle nostre parti è Salvatore Esposito che accudisce e trasporta di peso il padre Fortunato Cerlino nel magistrale episodio Lacrime e sangue, quasi senza parole, diretto dal grande Sollima della seconda stagione di Gomorra – La serie con i due attori che interpretavano rispettivamente il figlio Gennaro Savastano e il boss papà Don Pietro Savastano.

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Quest’Enea qui

Trentenne di Roma Nord, ricco, rilassato, spesso pronto a mangiare e bere (nel sonoro si esaltano masticazioni e bevute rinfrancanti). Si considera non bello ma “bellissimo”, sigaretta elettronica, auricolari fighetti praticamente fusi nelle orecchie, capello mesciato biondo oro. È il proprietario del rinomato ristorante Sushi Sun (a Roma ce ne sono tre con questo nome) ma soprattutto spaccia. Ha cominciato con l’hashish da pischello a scuola (una volta l’hanno pagato regalandogli una pistola) e ora tratta cocaina pura. Quest’Enea qui ha due padri: uno naturale di nome Celeste (Sergio Castellitto) che fa lo psicoterapeuta dell’infanzia e che il figlio snobba e sostanzialmente detesta e uno adottivo di nome Giordano (Adamo Dionisi), che di “mestiere” fa il gangster e che Enea ama e idolatra come un dio. Il padre mortale è Celeste. Quello immortale Giordano. Poi le cose si invertiranno, come sempre si diverte a fare Castellitto. C’è una madre giornalista televisiva inefficace (Chiara Noschese), un fratello adolescente esteticamente agli antipodi (peluria antiestetica non coltivata post-pubertà, brufoli, fuma le “vecchie” sigarette col tabacco, massiccio; lo interpreta il fratello più piccolo del regista Cesare Castellitto), un amico che lo ama e desidera manco troppo segretamente da quando sono piccoli di nome Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio) e una futura fidanzata e forse moglie di nome Eva (Benedetta Porcaroli) che pare molto aggressiva sia quando gioca a tennis che quando prende in giro Enea o lo interroga mettendolo spalle al muro, ma che in realtà è l’ennesima vittoria facile-facile di questa vita in vacanza e spensierata che il rampollo conduce. Fino a che…

Matteo Branciamore

Clanico

Le giornate si susseguono tutte uguali tra circoli vip lungo fiume, il tennis, casa con mamma, papà e Brenno, la domestica filippina che è tornata a Manila (un dramma rimpiazzarla), feste, locali esclusivi, i lavoretti di spaccio nel loro ambientino lussuoso affidati a lui e Valentino da Giordano che però un giorno chiede ai due di fare il salto: “300 kg di Madonna” da distribuire. Enea sogna il clan. Vuole fondare una sua Roma clanica in cui ci si ami e difenda senza tentennamenti sostituendosi alla vecchia famiglia borghese. Ce la farà nel piano questo mingherlino agiato che cade a terra se un uccello gli caca in testa mentre sta servendo a tennis?

Il secondo film di Castellitto non è uno spaccato sui trentenni di oggi di Roma Nord. Non potrebbe esserci lettura più pigra, miope e sbagliata. Non è nemmeno un dramma familiare borghese con momenti comici o satirici come I predatori. Ci sembra invece una spietata autocritica personale sotto forma di gangster movie destrutturato. “Io vengo da una famiglia povera. Tu no” imbruttisce Celeste a Enea quando finalmente smette di fare lo stucchevole padre comprensivo (Sergio Castellitto, mai dimenticare, è nato nel quartiere popolare di Centocelle). Pietro Castellitto si scrive e dirige in scena come il risibile Enea, fallimentare fondatore di un utopistico clan alternativo al nido di papà Celeste e mamma Marina. Il suo personaggio è e sarà sempre incapace di diventare un criminale fino in fondo perché completamente scollegato da quel mondo fatto di killer coi caschi senza volto che non è mai stato e non sarà mai il suo. Qui si sente la lezione degli amici e mentori Fabio e Damiano D’Innocenzo che influenzano Castellitto con il loro bellissimo esordio La terra dell’abbastanza (2018) che finalmente distrugge il trito e ritrito teorema scorsesiano di come sia facile, e straordinariamente divertente ed eccitante per un maschietto, diventare un gangster, per raccontare invece frustrazione, tragicità ed agnizione nel tentativo di scimmiottare un modello che poi il nostro corpo e la nostra psiche improvvisamente possono rigettare.

Guardate la durezza finale con cui Castellitto tratta il suo personaggio e quello dell’eterno innamorato dall’inquietante dizione forbita Valentino. Li giudica e li condanna. E se pensate che il giornalista/scrittore Oreste Dicembre (Giorgio Montanini) sia il solito sinistrorso ipocrita che Castellitto odia… occhio al fatto che Oreste è autore del libro “Torneranno i baci” laddove nella pellicola nessun contatto di labbra viene mai mostrato dal regista. Come dire: il regista è d’accordo con Dicembre. Ora i baci di Enea non possono essere filmati, ma forse altri torneranno domani. Siamo convinti che quelli futuri di Brenno potrebbero essere visti.

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Enea vs. La grande bellezza

Non vi è nessuna vanità in questo film. Nessuna auto indulgenza o descrizione di ambienti opulenti di potere con la gioia di farne parte o la fascinazione piccolo borghese del sognare di esserci come ne La grande bellezza (2013) di Sorrentino cui Alberto Barbera associava il film in sede di presentazione del Concorso di Venezia, in cui Enea ha trovato posto concretizzando la promozione del “rookie” da Orizzonti.

La grande bellezzaEnea: non potrebbero esserci due pellicole più diverse. Ne La grande bellezza Jep Gambardella è indistruttibile, sentenzioso, eternamente sproloquiante, mai in difficoltà e incapace, perché legato al potere, di far fallire non diciamo una festa ma manco una festicciola. Strano, visto quello che sproloquiava in monologo con la consueta prosopopea fin dall’inizio del film. In quella pellicola morivano tutti, tranne che lui. In questo modo quell’insopportabile dandy sarebbe potuto finalmente uscire dalla depressione e scrivere un nuovo romanzo. Qui è tutta un’altra storia. Non ci sono assoluzioni o recupero delle radici o conversioni o tifo per il protagonista virile con l’ultima battuta sprezzante. Colpisce che Pietro Castellitto nasconda fino all’ultimo nei suoi personaggi due cose che mancano a tanto cinema italiano di pura e sistematica esaltazione del potere: la coscienza e la responsabilità individuale. Dire che oggi è colpa dei figli se i padri e le madri piangeranno domani e verranno condannati alla sofferenza infernale dopo baci coniugali (loro sì che possono baciarsi) che li fanno volare in un giorno di gioia… è pura rivoluzione e autocritica generazionale. Qui ci esalta che un autore di 30 anni si assuma tutte le sue responsabilità smettendo di dare la colpa alle generazioni passate ma finalmente ammettendo di poter essere completamente responsabile e arbitro delle proprie sofferenze e catastrofi.

Non ci stupisce che tanti critici cinematografici boomer italiani (i nati tra il ’40 e il ’60 del ‘900) detestino Enea. Ne dovrebbe essere orgoglioso il regista. Cosa possono capire di rabbia, contraddizione, morte, dolore e sconfitta quei signori appartenenti alla generazione più viziata, fortunata, presuntuosa, legata al potere, materialista e auto indulgente del ‘900?

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Conclusioni

Potenza vs potere. Ancora Nietzsche, il filosofo amato alla follia da Pietro Castellitto. Il potere è conservazione, strafottenza e grettezza. La potenza: “richiede integrità e generosità di cui lei è sprovvisto” come dice il delirante Enea a Oreste Dicembre, prima di compiere un atto leggermente coerente con l’assunto per poi ripiombare nell’incoscienza edonista di sempre, severamente punita dal regista nei minuti finali. Che cosa ci vuole dire di sé stesso Pietro Castellitto con questo suo secondo film? Che è più colpevole di suo padre “nato povero”? Che è più ridicolo di suo fratello anacronistico e mammone (Brenno nel film dorme a letto con i genitori)? Che la sua fascinazione per il mondo criminale come concetto anti-borghese è un atteggiamento da prendere per il culo e oggi distruggere perché vecchio, artificiale e banalotto?

Come i D’Innocenzo hanno da poco concluso la loro trilogia sulla crisi del maschio italiano post-berlusconiano La terra dell’abbastanza (2018), Favolacce (2020), America Latina (2021) così anche Pietro Castellitto chiude con Enea il trittico ambientato in gran parte a Roma Nord costituito da I predatori (2020) più il romanzo Gli iperborei (2021). Gli consigliamo come terzo film di realizzare un giallo in Svezia, una commedia romantica tra nerd o un horror molisano. Così da disintossicarsi da un ambiente fisico e mentale che ci sembra abbia prima metabolizzato e poi descritto perfettamente e in modo molto maturo. Ma adesso basta. A noi piacerebbe che affrontasse a viso aperto l’Andrea Pazienza di Zanardi. Fumetto che Castellitto potrebbe filmare e interpretare da protagonista come nessun altro.

Perché il Valentino del sublime Giorgio Quarzo Guarascio sembra proprio uscito da quelle pagine intrise di raffinata e sensuale disperazione.

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