Nel secondo film di Emanuele Scaringi, in uscita il 30 marzo al cinema, c’è il folclore italiano, le leggende sulla Pantafa e tutto quello che cerca di evitare i modelli americani

Inizia tutto dalle paralisi del sonno. È un fenomeno diffuso e ne soffre l’8% della popolazione. Avviene nella fase del risveglio quando la mente si sveglia prima del corpo e non riesce a comandarlo, da cui la sensazione di paralisi. È uno stato che genera ansie e terrori che a loro volta generano allucinazioni. In molti immaginano una strega seduta sul proprio petto. È un disturbo poco studiato, quindi esistono solo una serie di rimedi artigianali che confinano con il folklore e la superstizione. Come sempre quando la scienza non arriva, la mitologia e le invenzioni compensano.

Da questo si sono mossi Emanuele Scaringi (regista e sceneggiatore) e Tiziana Triana (sceneggiatrice), dalle storie popolari intorno alla Pantafa, mitologie regionali e folclore: “Siamo colonizzati dal cinema americano (e per fortuna) che di queste tradizioni e storie popolari ne ha molte meno di noi” spiega Scaringi “così quando noi raccontiamo le nostre di storie soffriamo un po’ di sudditanza e cerchiamo di copiarli. Io invece ho cercato un respiro internazionale e contemporaneo. È il lavoro che Tiziana aveva già fatto per Luna Nera: sfruttare le nostre tradizioni per creare un immaginario cinematografico quasi vergine”.

Quasi. La Pantafa, quando la vediamo alla fine, mi sembra molto vicina a Samara di The Ring o comunque a quel tipo di immaginario j-horror di inizio millennio

“Guarda che c’è pochissimo trucco. Quando lavoro su una storia penso sempre a quale sia il miglior modo per raccontarla così da essere libero. Poi certo quello che ho visto volente o nolente mi influenza anche inconsciamente. Ma è più facile che abbia scopiazzato dalle serie perché sui film ci faccio più attenzione, cerco di essere abbastanza libero e trovare qualcosa di nuovo”. 

Ti riesce facile?

“Considera che il film è abbastanza complesso, c’è anche un cambio di punto di vista tra madre e figlia ad un certo punto. Come nelle fiabe o nei racconti di Buzzati. La Pantafa rappresenta qualcosa, un male o un disturbo, e tutto serve proprio ad affrontare questo tema”.

Per questo hai scelto l’horror?

“Questo è un film che mi piace molto ma un horror non l’avevo tra i miei obiettivi. Solo che questa storia tra madre e figlia, per la durezza del suo tema, difficilmente poteva essere raccontata in un film drammatico. La scena finale è un gran rischio per esempio. Ma se vuoi il film è anche un racconto sul momento in cui i bambini devono camminare da soli”.

pantafa j-horror

Questa è una storia anche di provincia estrema italiana e folklore, sono cose che conoscevate?

“No, tutte studiate. Per esempio una parte importante dell’ispirazione viene dal saggio di Federico Garcia Lorca sulle Ninne nanne andaluse, che come le altre ninne nanne anche italiane sono quasi sempre piene di minacce verso i bambini che non vogliono prendere sonno. Io mi sono studiato anche quelle abbruzzesi (e una sta proprio nel film) raccolte da Domenico Di Virgilio e pure quell contengono minacce di mamme e nonne esasperate all’indirizzo dei bambini a cui viene detto che saranno dati all’uomo nero o al lupo se non dormono. C’è insomma nel folklore anche una dimensione di odio verso i piccoli. Che è ciò che è difficile raccontare in un film che non sia dell’orrore”.

Ad ogni modo l’horror italiano di questi anni insiste molto sul folclore o comunque sulle cittadine di provincia e la parte più lontana dai centri abitati e dalle metropoli…

“È chiaro che esistono dei momenti per il mercato. I successi internazionali di alcuni horror magari meno commerciali ma che affrontano un tema più profondo credo abbiano stimolato delle idee. Cioè vedi The Babadook o Midsommar o Get Out e pensi che a differenza dei blockbuster quelli sono film che possiamo fare anche noi. Non hanno budget esagerati o cast di star, lì conta l’idea, e noi abbiamo un potenziale narrativo enorme non sfruttato. Poi certo farlo bene è un altro paio di maniche”. 

Torniamo all’idea di rifarsi a modelli stranieri però!

“No no. Quello che ho detto non vuol dire che poi li facciamo all’americana o da stranieri. Penso che tutto ciò che ho fatto abbia una forte impronta locale ma cerco anche sempre di avere un respiro più ampio. Pantafa l’abbiamo presentato la notte di Halloween al Raindance e lì non c’è stata discussione su quanto sia italiano o no. Lo hanno guardato e basta, apprezzandolo o criticandolo, ma per quello che è, non in relazione al paese di provenienza. Noi invece diciamo sempre “l’horror italiano” associato al film ma per gli horror americani non facciamo mai seguire il titolo dalla specifica “horror americano” li chiamiamo horror e basta”.

pantafa

Come hai scelto proprio l’Abruzzo?

“L’Abruzzo è pieno di queste tradizioni orali e mi piace immaginare questo film come un racconto orale a sua volta, con le sue leggende e il suo mostro. Inoltre c’è anche un discorso sull’aver abbandonato certi luoghi. Dal dopoguerra abbiamo svuotato i paesi in favore delle città, dove c’era il lavoro. Poi, da quando il lavoro ha iniziato ad entrare in crisi, molte coppie hanno fatto il viaggio opposto, hanno iniziato a ripopolare i paesini delle montagne e cercare in qualche modo di avvicinarsi ad un tipo di lavoro che era quello dei nostri nonni. Solo che quel lavoro è stato dimenticato per 30 anni almeno. È quello che fa Marta nel film, è realizzata in città ma stufa di vivere a 100 all’ora e vuole ritirarsi a coltivare lo zafferano, solo che non è così semplice, abbiamo dimenticato cos’è il contatto con la natura e il film parla anche di questo, di riappropriazione”.

Come mai Kasia Smutniak? È un’ottima attrice e in questa storia di una donna che arriva in un posto in cui c’è diffidenza verso di lei, porta anche il suo essere di origini straniere e quindi costumi ancora più diversi di quanto già non lo siano quelli di città.

“Pensavamo a lei già in scrittura e infatti se non avesse potuto o voluto forse avremmo cercato un’attrice straniera. Volevo proprio che fosse una donna dura”

C’è voluto del lavoro per convincerla?

“Non è stato immediato diciamo. Non le piacciono gli horror. Poi mano mano che andavamo avanti con i provini andava sempre più a fondo con il male e con il rapporto quotidiano con la bambina che l’ha costretta a tirar fuori delle cose e a cercare dentro angoli bui. Cosa che l’ha convinta. Non tutti gli attori sono generosi nel lasciarsi andare, Kasia invece è fantastica, si è messa sulle spalle un personaggio a cui non era facile dare credibilità. Un’attrice di livello internazionale che le serie americane si litigano, è incredibile per me che abbia così pochi riconoscimenti da noi”.

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