Alla Festa del Cinema di Roma è passato un film che strappa la violenza più efferata al reame del cinema di genere, che propone un mondo che sembra uscito dai film di Rodriguez ma in realtà è tutto ispirato ad una storia vera, senza eccezioni.

La Mujer Del Animal dimostra che esiste una violenza superiore a quella degli spruzzi di sangue, una che passa per l’atmosfera e che sta non solo in ciò che accade ma in tutto quello che può accadere o che sta accadendo nei timori degli spettatori.

L’autore di questo pezzo magistrale di cinema è Victor Gaviria, cineasta dall’atteggiamento compassato e dalla flemma impassibile, l’ultima persona che ci si aspetterebbe di trovare sul set di un film simile.

L’abbiamo incontrato alla Festa Del Cinema di Roma per capire da dove nasca questo film.

 

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Innanzitutto il luogo in cui è stato girato il film: non sembra ricostruito immagino fosse una vera baraccopoli. Ma è quella dove si è svolta la storia reale?

VICTOR GAVIRIA: La storia vera si è svolta 40 anni fa in un borgo in costruzione che ora non è più tale ma ne abbiamo trovato un altro povero uguale.

Avete dovuto fare degli interventi per adattarlo o non avete toccato niente?

VG: Abbiamo fatto interventi piccoli. Più che altro per gli interni delle case che erano tutte case reali. Abbiamo giusto levato i materiali contemporanei come la plastica.

Una storia di 40 anni fa ma dal film non si direbbe, cioè non fa nulla per farci capire che non siamo nel tempo moderno.

VG: Alla fine abbiamo aggiunto all’ultima copia realizzata (non so se è quella che si è vista qui al festival) un cartello che spiega che tutto questo si svolge negli anni ‘80, ma mi piace che non sia chiarissimo che è il passato.
L’unico motivo per il quale ci tengo è che è una storia di delinquenza prima del narcotraffico.

La parte più carismatica è quella di El Animal, un villain terrificante. Per arrivare a creare questa figura, a parte la realtà, l’ha contaminata con i tratti dei cattivi classici del cinema?

VG: No, mi sono ispirato solo alle testimonianze delle donne che l’hanno conosciuto, poi ho intervistato i suoi vicini. Dunque più che altro vita vera ma anche molto la storia eterna di La Bella e La Bestia. Un altro riferimento era il Cime Tempestose di Bunuel.

Abbiamo parlato di realismo ma è pur sempre un film di finzione, come si lavora con la materia finta per creare qualcosa di vero?

VG: Nulla è inventato in questo film, è tutto accaduto davvero. La vera protagonista è anche venuta sul set a parlare con gli attori per raccontare la sua povertà e condividere con loro la propria storia, per trasmettergli l’emozione reale. L’unico mio intervento è stata semmai la sintesi, il dover concentrare in due ore di film i suoi 7 anni. Ho scelto cosa tenere dentro e cosa fuori ma tutto quel che vedete è accaduto davvero.

C’è qualcosa che proprio non ha potuto mettere?

VG: Tutte le scene che avevamo filmato della vita di lei prima di incontrare lui, servivano a mostrare la sua personalità, erano momenti in famiglia, tradizionali che però abbiamo sacrificato per la storia.
Poi, da tutto un altro punto di vista, c’erano delle scene troppo terrificanti, troppo violente che ho dovuto levare. Il film rimane crudele ma prima era quasi intollerabile.

Quindi l’ha dovuto alleggerire?

VG: Abbiamo fatto test screening con amici e colleghi, molti ne uscivano distrutti dicendo che il film era troppo crudele con il pubblico, troppo difficile da guardare e sostenere davvero. Allora abbiamo lavorato di montaggio per arrivare ad un film forte ma in fondo accettabile da guardare. Inoltre se scendi troppo nella tana del bianconiglio troppo presto perdi un po’ la possibilità di raggiungere una punta emotiva più tardi. Quindi per continuare ad interagire con i personaggi in seguito ho dovuto ammorbidire l’inizio.

Che poi i momenti più violenti non sono tanti, è semmai l’oppressione ad essere insostenibile. Come la si raggiunge questa sensazione?

VG: È difficilissimo. Il momento più difficile da girare forse è stato quello in cui El Animal porta la sua donna al locale con lui, ma comincia ad amoreggiare con una prostituta davanti a lei. E lei piange, ma non perché lo ami o perché si senta tradita, piange per l’umiliazione, per essere stata messa in una posizione non dignitosa. È stato difficilissimo riuscire a far capire al pubblico il perché del pianto.

Gli attori da dove vengono? Sono veri attori?

VG: No, sono tutti non-attori, vengono da aree diverse della città. Prima volevamo gente con esperienza, poi una volta trovati i 4 non attori fondamentali abbiamo deciso di cercarne altri che potessero improvvisare con loro.

Vuol dire che la sceneggiatura non era fissa?

VG: Solo Natalia Polo, la protagonista, l’aveva letta. Gli altri sapevano cosa dovesse accadere in ogni scena e cosa fare ma dovevano risolvere la situazione sempre a modo proprio, con le loro parole e le loro azioni, il dialogo era libero, volevo collaborassero tra di loro.

Voleva quindi ogni ciak diverso dal precedente?

VG: No, non per forza, solo che in maniera molto naturale ogni volta improvvisavano e andavano dove li portava il personaggio, quindi finiva spesso ad essere diverso dal precedente. A quel punto il problema diventa montare scene così differenti tra loro, in cui i personaggi si dicono cose diverse. Un incubo ma ne vale la pena. L’importante è raggiungere la sensazione che nessuno reciti, anzi di stare guardando esattamente la vita vera, che nessuno capisca che si tratta di rappresentazione, la sensazione che potrebbe accadere di tutto a ciò che guardi come nella tua vita di tutti i giorni.

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