Permetteteci di definire Spider-Man: Across the Spider-Verse con un neologismo: un videofumetto. Un incrocio tra la videoarte e il fumetto o, per lo meno, il tentativo di far convogliare entrambe le forme in un unico, importantissimo, film.

Se qualcuno dei lettori ha mai avuto il piacere di imbattersi in un’opera di videoarte sa quanto questa forma espressiva possa essere contemporaneamente ostica, a volte incomprensibile, eppure viscerale. 

La videoarte è un linguaggio artistico fruibile su ogni schermo, ma trova la sua miglior collocazione nei musei. Si è sempre fatta, seppur in modi diversi. Il movimento Dada fu trai primi a usare le forme, la fisicità della pellicola, per spezzare il linguaggio del cinema e arrivare all’astrazione. Successivamente la videoarte ha indagato la percezione, il tempo (ci sono opere lunghissime), concetti astratti come la morte o riflessioni sull’immagine stessa. 

Il fumetto invece è letteratura (fuori di qui chi dice il contrario). Esploso come mezzo popolare, oggi è diventato un medium complesso, adulto, versatile. Il cinema, terzo fattore per raccontare Spider-Man: Across the Spider-Verse è una forma d’arte relativamente recente. Si è evoluto alla svelta per poi rallentare. Oggi corre nell’evoluzione tecnica: nuovi schermi, nuove tecnologie tridimensionali, audio e video. Il linguaggio, grossomodo, è ancora quello codificato nei primi anni del ‘900. 

Spider-Man: Across the Spider-Verse è un gran film, ma di gran film ce ne sono almeno una decina l’anno, non sarebbe una notizia. La sua importanza, il motivo per cui se ne parlerà a lungo, è la testardaggine con cui vuole prendere il linguaggio del fumetto, inserirlo in una sperimentazione formale degna della videoarte e con questo quindi dare nuovi linguaggi al cinema.

I fumetti sono molto di più che storyboard

spider-man across the spider-verse

Si sbaglia chi considera il fumetto uno storyboard. Entrambi sono vignette, spesso con dialoghi. Sequenze di immagini che accostate fanno un movimento narrativo. Con una differenza: nel primo ogni riquadro entra a far parte di una pagina, negli storyboard ogni disegno è un’inquadratura.

Il fumetto ha una totalità, un colpo d’occhio che distingue una griglia regolare da una splash page, che dà un ritmo e una libertà nella lettura impossibile da replicare nel cinema tradizionale. Prima il Batman degli anni ’60 con le onomatopee a schermo poi Ang Lee, Edgar Wright, Robert Rodriguez hanno provato a riprodurre l’esperienza di lettura del fumetto al cinema. Per farlo hanno adottato le sperimentazioni video quali: split screen, montaggi non convenzionali, alterazioni radicali dell’immagine tanto da far sembrare i neri dei tratti di china. Mancava una cosa: il disegno. 

La vera rivoluzione fu Spider-Man: Un nuovo universo. Across the Spider-Verse è il perfezionamento di quell’idea. Ovvero che le tecniche di animazione possano convivere e tradurre gli stili dei disegni e di scrittura. Ce ne sono sei, hanno detto Lord e Miller tempo fa. Chi ha visto il film sa che sono di più. Decisamente di più.

Gli occhi del lettore di Across the Spider-Verse

A differenza dei precedenti tentativi, qui la sperimentazione videoartistica è ancora più radicale. L’incipit epilettico è incomprensibile a velocità normale. Va vissuto, non capito. Ci sono più dettagli di quanti si possano mai cogliere. Alla pienezza si alterna l’astrazione minimale. Stili si incontrano e convivono: un avvoltoio color seppia abbozzato vicino allo spigoloso e definito Spider-Man 2099. I personaggi animati giocano il reale videogioco 3D di Spider-Man. C’è pure un paradosso narrativo (chi gioca il videogioco sa l’identità segreta di Spider-Man? Ovviamente, nella convenzione del film no). Ci sono scelte grafiche che forse hanno un significato preciso, o forse no, sono solo belle così. Un esempio è il campo e contro campo tra Gwen e il padre con i colori in positivo e al negativo. Espressione visiva di un’emozione, scelta grafica di quel mondo o alterazione nel multiverso? Tutto è possibile.

Il punto è che bisogna imparare a guardarlo man mano, ma si capisce subito come viverlo: sensorialmente. Across the Spider-Verse  ha l’ambizione di essere incorniciato in ogni fotogramma, salvo non dare il tempo di ammirarlo. Perché il fumetto e la sperimentazione visiva si uniscono nel meccanismo cinematografico per eccellenza: il montaggio. 

Il momento più creativo in assoluto è uno split screen. A sinistra c’è la figura intera del capitano Stacy, alla sua destra, separato da una linea, il primo piano di Gwen. Sembrano lontanissimi, una avanti e l’altro indietro, ma quando lei va da lui e lo abbraccia lo fa in un attimo troppo rapido. Erano in realtà vicini, allontanati solo dalle due diverse inquadrature.

Guardare Across the Spider-Verse è come essere un lettore di fumetti molto di fretta (e un po’ allucinato). Sta qui la differenza con gli altri tentativi cinematografici. Oltre ad assomigliare a un fumetto ricerca lo stesso modo di scorrere la storia con gli occhi. Così il film scorre alla rapidità con cui si sfogliano le pagine. I dialoghi hanno un montaggio più lento. Le note della redazione che appaiono sono troppo veloci perché si riesca a guardare e leggere (ma chi se le legge tutte nei fumetti?). Così anche l’azione è definita dal disegno. Come negli albi le sequenze cercano di essere spettacolare sui dettagli e sulla dinamica interna al disegno più che affidarsi al montaggio. 

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Dal fumetto a… quel finale!

Cinematograficamente un finale come quello di Across the Spider-Verse è inaccettabile. Un cliffhanger che si adatta al mezzo televisivo, non a un film completo. Si paga il biglietto per avere archi completi, non a metà. Per intenderci, la differenza tra un finale e una metà film sta nel senso di completezza. Avengers: Infinity War chiudeva le trame, seppur con una sconfitta. Il cliffhanger stava nel sapere come continuerà la storia con il film successivo, non come andrà a finire quella del film appena visto. Così anche Dune è stato tagliato alla fine del percorso di trasformazione di Paul Atreides. Across the Spider-Verse è un primo tempo e basta. Con gli spettatori abituati a vedere senza problemi blockbuster di più di 3 ore la scelta risulta quanto meno discutibile (lo spettatore non è obbligato a sapere che sta pagando per un film incompleto). Eppure potrebbe esserci una ragione proprio nel fumetto.

Questo amaro in bocca per una corsa interrotta a metà sa di già noto. È l’eterna frustrazione degli albi infiniti. Uno dopo l’altro devono tenere il lettore incollato fino alla fine della run. Ogni pagina 22 è l’inizio della pagina 1 del numero successivo. 

Così Across the Spider-Verse ha provato a sovrapporsi alla più pura espressione delle avventure dell’Uomo Ragno. Andrà visto il finale per giudicarlo. Ci sono ancora molte emozioni (troppe) irrisolte e delegate alla chiusura.

Fino al marzo 2024 c’è però tempo per discutere di stile e di linguaggio. Di come tre cose così vicine, eppure così lontane, come la sperimentazione video, il fumetto e il cinema, si siano incontrate in maniera magica. Come è stato possibile? Una soluzione all’interrogativo sembra venire proprio nella forma scelta: il blockbuster con personaggi amatissimi. 

Così, invece che un criptico film per una nicchia, il team di creativi è riuscito a dare al pubblico un’opera – anzi, due – rivoluzionarie. Questa ricerca spesso è stata di nicchia. La più grande trovata di Across the Spider-Verse è dimostrare invece che la ricerca di nuove frontiere delle immagini, di nuove riflessioni metanarrative possono essere uno spasso per tutti.

Spider-Man: Across the Spider-verse è al cinema. Trovate tutte le notizie nella nostra scheda.

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