Maren si aggira per l’America. I suoi coetanei, narrati in altri film, hanno fame di vita. Lei ha fame di persone. Di corpi da assimilare, masticare e ricordare. Bones and All segue Maren e i suoi incontri: Lee, Sully, Jake, ma guarda altrove. Inizia con dei panorami, dei tralicci dell’alta tensione che segnano il tragitto. È lì che Luca Guadagnino mette in scena le sue idee più affascinanti e brutali. Dietro la macchina da presa.

Bones and All è infatti un film di cannibali apocrifo, dove il mangiarsi perde ogni orrore (tranne nella sequenza iniziale) provando addirittura a commuovere con solennità (la sequenza finale). Fuori scena, quando l’inquadratura si volge altrove, si svolge tutto un altro film. Quello delle passioni esplosive, brutali, della carne come sesso, della sporcizia senza poesia, dell’orrore e della crisi. In scena ci sono i sentimenti più dolci e accoglienti.

Così Bones and All trova la sua provocazione, l’atto più sovversivo, nell’essere un film poetico fino all’eccesso, in punta di piedi, amabile. Piega la materia horror e la porta nel regno della fiaba con personaggi bizzarri che potrebbero venire da Collodi (così è Sully di Mark Rylance) e altri dai film on the road (Lee di Timothée Chalamet). Dov’è il dramma? Dov’è la rabbia adolescente, la paura di essere diverso, la voglia di graffiare il mondo? Tutto questo è nel passato dei due giovani protagonisti. Nel presente, che vediamo noi, scorre un altro film.

Così, da questa prospettiva sporcata, ai confini tra i generi, Guadagnino usa Fino all’osso di Camille DeAngelis per fare un film che ama più i personaggi che quello che gli succede. Gli incontri sono banali, i dilemmi che provano no. Attraverso loro, la loro età inquieta, il suo cinema inquadra una generazione diversa nei desideri e nel viaggio che compie. È un cinema che osserva il mondo di oggi dal passato (gli anni ’80), per dire qualcosa di nuovo su chi è giovane nel nostro tempo. 

bones and all

Bones and All parte dalla tradizione di genere

La sequenza di apertura è l’unica pienamente di genere. Teen horror tra il B movie e l’autoriale (Raw). C’è una festa per cui vale la pena sgattaiolare fuori di casa. Le ragazze si divertono. Vicine, si fiutano. Provano gusti ed emozioni potenti. Troppo potenti per Maren che all’improvviso si toglie la maschera: addenta il dito dell’amica strappando pelle e carne.

Il mostro si rivela. Inizia la fuga. Con una differenza: nell’horror classico nessuno sa niente. I genitori, spaventati dai figli, sono impotenti di fronte alle bestie che sono diventati. Frank invece, il papà di Maren, sa benissimo cosa fare, quasi se l’aspettava. All’improvviso dal film da drive-in ci si trova in un cinema che ha assimilato il vampirismo di Thomas Alfredson in Lasciami entrare. Gli adulti conoscono bene i loro figli, ma non hanno più le forze per proteggersi da loro stessi. Forse li hanno protetti fin troppo. È questo il problema, devono farsi da parte.

La tradizione lascia il passo ad un nuovo rapporto postmoderno. Inizia il viaggio a partire da un abbandono.

Giovani abbandonati

La spiegazione che il papà affida alla registrazione su cassetta non giustifica l’abbandono della figlia. A lei dà poco, tanto che non lo ascolta nemmeno in un’unica volta. Serve piuttosto a Guadagnino per ricordarci che quel passato drammatico e sofferente che viene tolto dal film qualcuno invece l’ha visto. Sono i suoi personaggi che non si riprenderanno mai da quello a cui hanno assistito. Una madre, addirittura porterà sul corpo i segni di tutto ciò.

Il film resta così sulla pelle, senza provare ad entrare nelle budella. È un piacevole calore primaverile, più che una soffocante afa estiva. Le emozioni delle immagini sono quasi bucoliche, mentre vanno in contrasto con la fame costante dei personaggi. La regia sceglie la contemplazione, mentre i protagonisti devono trattenersi dall’azione.

Lasciati soli dalla famiglia, vengono abbandonati una seconda volta dalla cinepresa. La regia guarda altrove, li lascia fare le loro cose, i loro pasti, fuori scena. È quello che fanno anche i genitori che o li contrastano a forza o li lasciano. I cannibali sono spinti a camminare con le proprie gambe, a starsene in disparte cercando di interferire il meno possibile. Per questo Bones and All parla con il paesaggio molto più di quanto faccia con i dialoghi. C’è più cliché nei suoi soggetti (soprattutto in Jake, il cannibale più perverso incontrato a metà con il suo seguace) che nei luoghi in cui tutto questo avviene.

Gli americani raccontano i viaggiatori in primo piano, l’Italiano Guadagnino chiude il film con i due personaggi minuscoli e trascurabili rispetto alle infinite dimensioni dello spazio in cui sono. Un eden o un purgatorio?

Riconoscersi a vicenda

I cannibali, in questi territori immensi e poco popolati, si fiutano e stanno vicinissimi, continuano a riconoscersi e a seguirsi. Quando hanno fame il loro odore si acuisce. Questo comporta che nella prima parte del film Maren incontri più persone come lei che i “normali”. Colei che è fuori dal coro, l’esiliata dalla città, non fa affatto fatica a trovarsi immediatamente in un’altra, strampalata, comunità segreta. O Bones and All lo si legge come una fiaba moderna, o la chiave realistica di cui si ammanta la fotografia non regge.

Però, in questi incontri non sempre ben riusciti, c’è una grande idea sull’oggi. I giovani isolati, che alle volte si rinchiudono spaventati dal mondo o da se stessi, sanno ancora riconoscersi. Qui sono i mostri che hanno paura, non le loro vittime. Per questo allora il viaggio che Maren affronta non ha l’entusiasmo vitale del cinema classico, non odora di asfalto, gomme e scoperta. È depresso, stanco, in attesa. 

BONES AND ALL_ Taylor Russell and Timotheģe Chalamet_photo by Yannis Drakoulidis
BONES AND ALL_ Taylor Russell and Timotheģe Chalamet_photo by Yannis Drakoulidis

I cannibali non cercano Godot. Aspettano qualcuno che li capisca. Perché hanno ancora bisogno di essere guidati, in qualche modo e con ogni mezzo, nella scoperta dei propri impulsi. Dipendenze di cui già sanno benefici e pericoli. Addirittura si costruiscono un’etica ben precisa (che funziona molto in questo mondo irreale con molti morti e poca polizia). 

È in questo dettaglio che il film trova la sua idea migliore. Uno sguardo ambiguo in un ristorante. Mentre Maren e Lee parlano c’è uno sguardo indiscreto al tavolo accanto. Una bambina curiosa o una bambina che ha annusato qualcosa di simile a sé?

Donarsi anima e corpo: Bones and All

Maren e Lee stanno crescendo. Il corpo in cambiamento ha delle esigenze. Al posto che il sesso i due si raccontano le prime volte della carne. Il godimento più bello: il pasto completo, comprese le ossa. Ed è un peccato che questo piacere perverso, questa voglia pazzesca ed al contempo necessaria alla sopravvivenza, non si senta così tanto in scena.

Il cinema adolescente degli ultimi anni ha raccontato la passione come un qualcosa da trattenere. Da Twilight ai film di malattia, gli amanti devono astenersi perché rischiano di uccidersi. Guadagnino invece non è d’accordo. Mantiene il contegno, ma trova sul finale una sorta di sacralità. I suoi amanti sono diversi. Invece che dimostrare la propria passione rifiutandola per il bene dell’altro, i due cannibali disposti a morire pur di donarsi totalmente.

Bones and All inizia così come cinema di genere, e si trasforma nel viaggio da un horror sulla carne al suo opposto: un film di anime e poesia. Guadagnino dice molto dell’essere giovani con un’ottimismo (seppur nascosto) che il cinema ha dimenticato. Nonostante le passioni siano spaventose e quindi trattenute, le emozioni abbassate, e le esistenze rese minuscole rispetto al cosmo, Lee e Maren sanno come riconoscersi e sono disposti a donarsi anima e corpo. Fino alle ossa.

Potete trovare Bones and All su Amazon Prime Video.

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