“Tutto quello che oggi fa andare bene un film in sala è ciò che da sempre anima i festival: presenza di star in loco, senso dell’evento, misto di retrospettive e film nuovi”. È difficile non dare ragione a Cameron Bailey, alla guida del festival di Toronto da quando fu nominato direttore artistico nel 2012, in seguito diventato co-head e poi executive director e ora CEO di tutta la manifestazione. 

La frase è una delle molte interessanti da lui pronunciate all’interno di un panel del MIA – Mercato Internazionale dell’Audiovisivo, di cui era ospite. Si trattava di un talk sulla necessità per distributori e sales agent di diversificare il business per affrontare il futuro del cinema, oltre a Bailey (che rappresenta il mondo festivaliero), c’erano rappresentanti di distribuzioni diventate produzioni (Lucky Red), di venditori diventati produttori (Wildbunch) ma anche di venditori puri (la scandinava Trustnordisk) e distributori puri (gli olandesi di Cineart).

Il punto di vista del direttore del festival di Toronto è stato non solo particolarmente affilato e competente (visto che oltre ad avere a che fare con i venditori internazionali e a gestire un pubblico il festival dal 2010 possiede e programma anche un cinema con 5 schermi attivo tutto l’anno) ma anche una delle poche volte che abbiamo sentito parlare quello che è uno dei 3-4 direttori di festival più importanti del pianeta. Il festival di Toronto da quest’anno è tornato in piena forma, fisicamente. Dopo la pandemia si è infatti tenuto per un anno online e per il successivo in forma ibrida con solo 100 film (che non sono pochi ma Toronto è un festival gigantesco).

I festival continueranno ad essere importanti?

“Tutto quello che oggi fa andare bene un film in sala è ciò che da sempre anima i festival: presenza di star in loco, senso dell’evento, misto di retrospettive e film nuovi. Finchè proteggiamo queste tre componenti abbiamo sicuramente un futuro, perché le distribuzioni vogliono un posto in cui lanciare i loro progetti e le premiere rimangono un momento molto importante. Tuttavia se vedo una cosa cambiare è il fatto che il film in sé non è più l’esperienza, o almeno non basta, devi costruire intorno ad esso qualcosa che costituisca l’esperienza. Noi a Toronto un punto importante per creare l’esperienza lo abbiamo sempre avuto ed è il pubblico, produttori e venditori vogliono venire da noi per capire le reazioni di un ampio campione del pubblico nordamericano (uno che parla inglese), a film sia nordamericani che stranieri. Mezzo milione di spettatori che collettivamente premiano il film più popolare è appetibile per tutti. Finchè sappiamo generare pubblico possiamo “pagare” con questa moneta la nostra sopravvivenza”.

Come è cambiato il festival negli ultimi anni?

“Abbiamo introdotto le serie 7 anni fa e ora pensiamo a come espandere la sezione in maniere che per noi possano avere un senso. Inoltre abbiamo accolto gli streamer, cosa che inizialmente era molto controversa ma ora è totalmente normalizzata. Il vero cambiamento è stato quello relativo al nostro posto nel mondo. Per anni la sala che gestiamo è stata dedita più che altro al cinema nordamericano e dell’Europa occidentale, ma ora con l’arrivo agli Oscar di film come Parasite, Drive My Car anche noi stiamo diventando più internazionali. Basti pensare che il nostro maggiore successo di quest’anno Crimes Of The Future è stato superato da un film indiano in lingua Tamil”.

Come immagini il futuro dell’industria?

“Davvero non lo so. Posso dire quel che vedo ora. C’è stato un cambiamento fortissimo negli ultimi 10 anni, di quelli che distruggono gli schemi in vigore per imporne di nuovi che ancora non conosciamo però. Siamo comunque tutti ancora qui che parliamo di cinema e non stiamo dando di matto. Ancora. Tuttavia nessuno sa dire che accadrà nei prossimi 5 o 10 anni o se saremo ancora rilevanti. Tutti ci dicono che nel futuro le persone rimarranno in casa a guardare film e serie, e che non ci sarà ragione di uscire se li puoi ricevere sul televisore. Eppure noi ogni settembre teniamo il nostro festival con un ottimismo folle. Mi chiedo però se lo facciamo con una speranza o se stiamo solo guardando la fine di quel che conoscevamo”.

Hai capito cosa attira le persone fuori da casa?

“La cosa più importante che abbiamo rilevato è che c’è un grande interesse per tutto ciò che genera fandom. Noi, come chiunque altro abbia provato a farlo nel mondo, abbiamo avuto un grandissimo successo con una retrospettiva sullo Studio Ghibli [è accaduta la stessa cosa a Lucky Red che ne ha tenuta una quest’anno in Italia ndr.]. Tutto ciò che ha o che sa creare una fanbase eccita, guarda il cinema dei supereroi o guarda ciò che viene dalla Corea del Sud (musica, cinema o serie) che oggi genera interesse all’estero come il cinema italiano faceva negli anni ‘60 e ‘70. Io credo che questo tipo di fandom possiamo sfruttarlo e indirizzarlo nel mondo arthouse, cioè nel nostro mondo ci sono molti artisti e molti talenti che generano un senso di affinità intenso ed emotivo”.

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