Cape Fear – Il promontorio della paura è su Amazon Prime Video

Lo home invasion è un (sotto)genere inquietante a prescindere e per principio. Gioca prima di tutto con una delle nostre paure più grandi in quanto animali sociali, quella cioè che il nostro rifugio sicuro possa trasformarsi in una trappola mortale, e che ci possano essere entità esterne che ne violano la sacralità e noi non ci possiamo fare nulla. Lo home invasion, però, ha delle regole, e la principale è che l’invasore o gli invasori non solo non sono i benvenuti, ma non sono neanche attesi: arrivano dal nulla (e spesso spariscono nel nulla quando hanno fatto quello che amano fare), quasi sempre senza un motivo, e in questo modo spersonalizzano la violenza e la morte, rendendole gratuite, insensate e quindi ancora più spaventose. Cape Fear – Il promontorio della paura di Martin Scorsese, remake con la violenza alzata a 11 dell’omonimo film del 1962 con Gregory Peck e Robert Mitchum, infrange questa regola fondamentale, e in questo modo rende tutto l’accaduto ancora più terrificante.

Più che uno home invasion, Cape Fear è un reality invasion. La storia, arcinota ma che fa sempre bene ricordare, è quella di Max Cady, uscito dal carcere dopo una condanna di 14 anni per stupro e violenze, e di quello che al tempo della sua incarcerazione era il suo avvocato difensore, Sam Bowden. Bowden non riuscì a evitare la galera al suo cliente, e anzi fece qualcosa che non avrebbe dovuto fare dal punto di vista professionale per assicurarsi che finisse dietro le proverbiali sbarre. Cady è quindi tornato in cerca di vendetta, e sembra particolarmente interessato alla figlia non ancora sedicenne dei coniugi Bowden.

Bob

Un altro film più semplice di Cape Fear avrebbe preso questo spunto e l’avrebbe trasformato in un classico home invasion, con la famiglia intrappolata nella propria villona e il mostro che li perseguita e li tortura, psicologicamente e fisicamente. Max Cady, però, ha passato i suoi 14 anni di carcere a leggere, a studiare filosofia e legge, a farsi una cultura e anche a costruirsi un personalissimo sistema morale; è più Alex DeLarge che il cattivo di un generico The Purge, è un villain filosofico che non vuole limitarsi a fare del male a Bowden, vuole “insegnargli il significato della parola ‘perdita’”.

Si potrebbe far notare con una certa dose di sofismo che tecnicamente Max Cady entra in casa Bowden, non invitato e non individuato, e più volte. Ma il suo piano non prevede un assalto frontale, ma un lungo e faticoso lavoro di logoramento fatto di mezze minacce e apparizioni fugaci in giardino. Un assedio studiato nei minimi dettagli per essere sempre all’interno dei recinti previsti dalla legge, e rendere quindi difficile se non impossibile fermare la valanga. Un piatto servito freddo che non si risparmia di scaldarsi occasionalmente, ma che rimane sempre al di sotto della temperatura di ebollizione.

De Niro

Il risultato, metafore culinarie a parte, è che in Cape Fear la tensione cresce costantemente e soprattutto inesorabilmente: è un film di gente inerme di fronte a un sistema che, come spiega Robert Mitchum (che insieme a Gregory Peck ha una particina in omaggio al film originale), è tarato per reagire a casi generali e generici, ed è pieno di falle di fronte a situazioni complesse e che richiedono troppo contesto. Cady è un serpente, un mutaforma, capace di adattarsi alla situazione e di uscirne sempre illeso (tranne quando ne esce ferito, che è poi il momento del suo massimo trionfo). È inesorabile, e a tratti sembra di vedere L’esorcista con Robert De Niro a fare Pazuzu e Nick Nolte nei panni di Ellen Burstyn, che prova e riprova e cerca soluzioni sempre più elaborate a un problema che è evidente ma che il resto del mondo non sembra voler riconoscere.

La particolarità della situazione, poi, rende Cape Fear particolarmente provocatorio. Perché è vero che Cady è un mostro, uno stupratore, un omicida, una persona socialmente pericolosa. Ma è anche vero che il cuore della questione non è il suo reato di quattordici anni prima, ma il fatto che il suo avvocato difensore, fornitogli dallo Stato e che segue un rigidissimo codice di deontologia professionale, ha commesso un atto di grave negligenza mettendo il proprio personale giudizio morale davanti alla legge e ai suoi meccanismi. È impossibile, una volta conosciuta la storia, non pensare “ha fatto bene! L’avrei fatto anch’io”, a meno che non si abbia una laurea in legge: Cape Fear è un film di avvocati, che tra uno stupro e un poveraccio garrotato parla a lungo del mestiere di avvocato, di cosa significhi rappresentare la legge, di quanto il sistema faccia paura anche a chi ci lavora dentro.

Cape Fear mogliefiglia

Non arriviamo a dire che Cape Fear giustifichi le azioni di Cady, che viene sempre e indiscutibilmente ritratto (persino fotografato) come il mostro che è. Ma sicuramente pone delle questioni non banali sul rispetto delle regole e dei codici anche quando vanno contro il buon senso, e sul valore stesso che dovremmo attribuire al buon senso in un sistema che vogliamo sia il più fluido e automatizzato possibile. Pone anche questioni relative al matrimonio e alla fedeltà coniugale, ma quelle sono, ci azzardiamo a dirlo, quelle venute un po’ meno bene, più caotiche e generalmente meno interessanti: non siamo sicuri che il film cambierebbe granché se Sam Bowden e la moglie Leigh andassero d’amore e d’accordo, perché la seconda è soprattutto un accessorio – tutta l’attenzione del film è concentrata su suo marito e sulla sua nemesi.

Anche lo spazio che viene concesso alla figlia Danielle serve soprattutto per far brillare di riflesso Cady e le sue doti affabulatorie. A proposito, finora non abbiamo fatto (troppi) nomi ma, oltre a De Niro e Nolte che sono entrambi in uno stato di grazia clamoroso, il resto del cast occupa alla grande le caselle che vengono loro riservate, e riesce a strizzarsi e farsi notare anche in mezzo ai due giganti. È soprattutto Juliette Lewis/Danielle che ruba la scena, più di quanto faccia la madre Leigh/Jessica Lange: in un film che è spesso esagerato ai confini del caricaturale (a scanso di equivoci, è un bene), lei interpreta la perfetta Lolita, la cui sola presenza fa alzare istantaneamente la posta in palio, perché a rischio non c’è più solo Bowden (che, come dicevamo, è in quella situazione per un motivo) ma il simbolo stesso dell’innocenza.

Juliette

Cape Fear sarebbe dovuto finire in mano a Steven Spielberg, che però lo cedette a Scorsese in cambio di Schindler’s List in quello che è uno dei più clamorosi casi di scambi di figurine della storia del cinema. Il risultato è che il previsto tocco Amblin scompare completamente, e il suo posto è preso da un altro regista enorme che aveva una gran voglia di divertirsi e soprattutto di omaggiare Hitchock (già influenza decisiva sull’originale del 1962). Cape Fear gronda di inquadrature e transizioni hitchcockiane, macchiate anche da un certo gusto cromatico che sembra più figlio del giallo all’italiana. È insomma un film ragionevolmente vintage, nell’approccio e nella messa in scena: lo si potrebbe persino definire, con un altro forestierismo, un divertissement, Scorsese che fa Hitchcock ma ci aggiunge un carico di violenza, arroganza e massimalismo che è tutto suo.

Speriamo a questo punto di avere giustificato ampiamente l’affermazione iniziale: Cape Fear è un reality invasion, un film nel quale un tizio decide di entrare a forza nella vita di una persona per vendicarsi, e riesce a farlo perché favorito da un sistema che tende a non prendere sul serio le vittime di un certo tipo di violenza e di gaslighting. Ed è ancora oggi un film terrificante, nel quale ogni passaggio, ogni snodo narrativo, non importa quanto assurdo, è perfettamente giustificato, plausibile e inesorabile. È come guardare la morte che ti arriva in faccia, ma molto lentamente.

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