Entriamo per un attimo nei cellulari degli esercenti cinematografici qualche settimana fa e apriamo WhatsApp di coloro che hanno programmato C’è ancora domani. Se scorriamo un po’ in dietro nel tempo con altissima probabilità potremmo leggere una conversazione con alcuni colleghi che parte da una domanda: “Ma anche da te hanno applaudito alla fine del film della Cortellesi?”. 

Un fenomeno che nessuno si aspettava e che, con stupore, sta rimbalzando di bocca in bocca sia tra gli addetti ai lavori che, ovviamente, del pubblico che sta premiando il film con il passaparola. Anche i più ottimisti, quelli che si aspettavano un buon successo di questo film drammatico, mascherato da commedia nera, sono rimasti spiazzati di fronte alle reazioni del pubblico al finale del film.

Gli applausi scroscianti sui titoli di coda erano un qualcosa che accadeva con la Marvel di un tempo alle proiezioni con il pubblico più appassionato. Ma per un film italiano è un fenomeno del tutto inaspettato. La sua portata è quasi storica. 

La psicologia dell’applauso

Che poi una applauso non corrisponda a un sigillo di qualità del film (anche se C’è ancora domani è decisamente riuscito) è chiaro a tutti. Lo spettatore che batte le mani, però, comunica una cosa ben precisa e importantissima per chi si interessa della salute del cinema italiano. È come lo spettatore dicesse: “Questo film non solo mi ha convinto e mi ha emozionato, ma mi ha anche coinvolto e soprattutto mi sono sentito rappresentato“. O ancora: “Questa storia ha detto attraverso le immagini quello che io non sapevo esprimere a parole”. Lo fanno le spettatrici, per questo film che le rende protagoniste, ma crediamo sia un’emozione che può coinvolgere anche gli uomini. 

c'è ancora domani intervista

Ogni film è, a suo modo, un atto politico. Ci sono però opere che mirano esplicitamente ad avere un piccolo impatto nei discorsi comuni grazie a quello che dicono e come lo dicono. C’è ancora domani non veicola nessun messaggio particolarmente nuovo. Ottiene però un grande effetto con un gioco di prestigio narrativo. Ci fa credere di essere una cosa… per poi rivelarsi altro. Quello che sbandiera per gran parte della sua durata, scopriamo nel finale, non è ciò che ci vuole dire veramente.

C’è ancora domani si presenta come un film che analizza quella che era la società italiana di un tempo: un disastro che cercava però di aggiustarsi. Famiglie di facciata, rapporti umani squallidi dopo il trauma collettivo della guerra. Un sistema patriarcale imperante che soffocava ieri ogni possibilità di sviluppo e che, oggi, forse perdura ancora. Lo spettatore crede per tutto il tempo che sia questo ciò che Paola Cortellesi vuole dire. Non è così, è un inganno per rendere ancora più potente la sua vera affermazione sul finale.

C’è ancora domani fa venire voglia di essere orgogliosi

Questo non è un film film di denuncia, è un film di ribellione pacifica, che propone un pensiero concreto su come le donne donne abbiano cambiato la nazione e le loro condizioni di vita. fa di più: propone un modo semplice attraverso cui ancora oggi tutti noi possiamo farci valere in modo non violento. Le elezioni. Cercate, volute, ottenute con forza, testardaggine e ribellione. La solidarietà. Tra vittime, tra persone che non sanno bene cosa e perché ma sanno che vogliono cambiare. In un cinema italiano che ama raccontare storie in cui ci si piange addosso, un film che aiuta a rialzare la testa, a guardare con orgoglio le vittorie del passato, è esaltante. 

Sono tanti i film che lo fanno, l’America insegna, ma queste opere di stampo sociale e motivazionale non ci arrivano mai così forti perché non sono radicate nel nostro territorio e nella nostra cultura. C’è ancora domani è un film italiano, che pensa italiano, e che tra la sua origine dai racconti dei nonni e genitori.

Quella che viene amplificata e deformata in chiave grottesca è quella sensazione che rimaneva quando si ascoltano le storie della vita di un tempo ai tempi della guerra. Quante volte invece le nostre opere, che dovrebbero essere ambientate nelle città in cui viviamo, sembrano invece prendere le mosse in luoghi fuori dal tempo che assomigliano molto a quelli veri, ma non lo sono. Raccontiamo la nostra nazione in maniera distopica (i film dove sembra che la criminalità sia ovunque) e a volte utopica (tutti ricchi, borghesi, annoiati). Una realtà che lo spettatore spesso finisce per non riconoscere e vivere con freddo distacco. 

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Invece Paola Cortellesi è molto intelligente nel lavorare su scenografie semplici e riconducibili all’esperienza di molte famiglie. Può essere il mercato, dove si intrecciano relazioni, la piazza dove ci si osserva tutti o la stanza è chiusa dove riposa il nonno. 

Storie presenti anche nei racconti di famiglia

Questo è solo un esempio di un’integrazione forte tra quella sorta di ricordo collettivo che riguarda una ampio segmento di italiani e le esigenze della sceneggiatura che non ci sembra mai finzione, ma spesso Storia. Se C’è ancora domani ha conquistato il pubblico, lo ha fatto proprio grazie a questa semplicità nella messa in scena che si raggiunge solo con una profonda intelligenza e con una conoscenza profonda del pubblico a cui ci si rivolge. 

Non è vero che al cinema non si deve applaudire perché non sono presenti in sala gli attori e i registi. Al cinema si applaude eccome, perché vicino a noi ci sono altre persone e a volte si vuole far sentire il proprio entusiasmo per caricare ancora di più l’emozione collettiva. Altre volte lo si fa per dire “sono d’accordo“, altre volte è un “finalmente“. In questo caso gli applausi per C’è ancora domani appartengono sia all’una che all’altra che categoria. Sono l’esito di un’opera che nasce da un’esigenza comunicativa, da una necessità della regista che sè comune a molti e che fa passare sopra anche ai difetti.

Per ottenere tutto ciò non esiste una formula, ma una disposizione d’animo con cui ci si approccia al fare i film. Volendoli fare, più che dovendoli fare. Credendo che, nel suo piccolo, ogni storia sia importante e come tale vada trattata. Proiettandola nel domani.

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